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Di quali riforme ha bisogno il lavoroDa molto tempo, ormai, l’argomento che tiene banco nel dibattito politico, economico e sociale è quello delle riforme, e questo non può stupire dal momento che la società è in continua trasformazione (e oggi le trasformazioni stanno viaggiando con una velocità alquanto elevata, maggiore rispetto a molti periodi precedenti) e la trasformazione richiede le riforme. Di fronte a questa constatazione banale, non si può non concordare, in via di principio; quanto alla convergenza dei contenuti delle riforme necessarie… Soffermiamoci sulle riforme in campo economico; anzi, in tema di mercato del lavoro, richiamate ad alta voce da molti, se non da tutti, in un momento in cui i tassi di disoccupazione sono alti e non danno speranza di poter diminuire in tempi brevi, soprattutto perché non vi sono prospettive di crescita economica. Val la pena ricordare ancora una volta che la crescita economica, misurata, bene o male, dalla crescita del reddito interno globale, ha delle determinanti ben precise in termini potenziali: a) il livello del reddito di piena occupazione del lavoro; b) il livello della capacità produttiva del capitale; c) il livello del reddito che deriva dall’aggregazione dei livelli ottimali per i singoli produttori; d) il livello della domanda aggregata. Dalla crescita di quali dei predetti livelli dipenderà la crescita effettiva del reddito interno globale? Ovviamente dalla crescita del livello in quel momento più basso; non dalla crescita di uno di essi preso a piacere, per simpatia o perché «ce lo chiede l’Europa» o per caso. Le riforme che non elevino il tetto più basso dei quattro possono essere “belle” in via di principio, ma inutili fintanto che la grandezza cui ci si riferisce non diventerà il livello più basso fra i quattro. Ritornando alle riforme del mercato del lavoro, esse riguardano ovviamente il lato dell’offerta aggregata, della possibilità o della convenienza a produrre beni (merci e servizi). La riforma del mercato del lavoro che tiene banco è oggi quella riguardane la flessibilità, che sembra essere la parola d’ordine, all’inizio del Terzo millennio, per il mercato del lavoro, e non solo per questo. Obiettivo dichiarato, rispetto al quale la flessibilità appare come uno strumento, è ampliare le opportunità di lavoro per quei settori di popolazione che al momento sono esclusi dal mercato del lavoro o vivono al margine di esso; il che sembra possibile solo introducendo un’ampia disponibilità di tipologie contrattuali così da permettere un’ampia flessibilità nell’impiego del lavoro. Ma la flessibilità può aprire la via alla diffusione della precarietà nei rapporti di lavoro, poiché i soggetti presenti nel mercato del lavoro non hanno equivalente potere contrattuale e il lato della domanda di lavoro, quello delle imprese, è contrattualmente più forte dell’altro. Si può quindi avere facilmente che gli elementi di flessibilità presenti nel mercato si riducano alla creazione di “flessibilità selvaggia”, con assoluta libertà di licenziamento e salari al ribasso; cioè un mercato del lavoro senza regole, che poi significa sempre affermazione del più forte sul più debole. Per questo, pur se, in teoria, le esigenze della flessibilità nel mercato del lavoro richiederebbero la disponibilità di un ventaglio di tipologie di contratti di lavoro atti a soddisfare le variegate esigenze della domanda e dell’offerta di lavoro; nella pratica, la presenza di una grande varietà di contratti di lavoro può aprire la strada a fenomeni di “flessibilità selvaggia”, e quindi la presenza di un contratto di lavoro unico, nel quale il lato dei lavoratori abbia chiare e solide tutele contrattuali, può essere la situazione, non ottimale sul piano teorico, ma migliore nella concreta applicazione. In verità, la flessibilità non può essere pensata con riferimento alle esigenze soltanto di una parte del complesso dei fattori produttivi che costituiscono l’azienda. Il lavoro dev’essere flessibile per non rendere l’azienda una struttura incapace di adattarsi ai mutamenti dei processi produttivi e dei mercati ma, a sua volta, l’organizzazione dell’azienda deve assumere configurazioni flessibili che rispondano alle esigenze di vita dei lavoratori e delle loro famiglie; che garantiscano anche la tutela delle posizioni lavorative in presenza di mutamenti nei processi produttivi e nei mercati. Così, in presenza di flessioni nei livelli di produzione, per difetto di domanda, si dovrebbero convenire diminuzioni nelle ore di lavoro delle posizioni lavorative e permettere allentamenti negli stessi livelli della produttività oraria in modo che siano mantenute il più possibile le posizioni lavorative in essere e quindi con livelli di occupazione che si flettono meno dei livelli di produzione. D’altra parte, che le eventuali flessioni dei livelli di produzione si scarichino più sulle ore di lavoro (e anche sui livelli di produttività oraria per il formarsi di fenomeni di labour hoarding) piuttosto che sull’occupazione è tipico delle aziende che hanno fatto rilevanti investimenti in capitale umano nei loro addetti; investimento che andrebbe perso se i lavoratori fossero licenziati. Coniugando le esigenze della flessibilità, sia per l’azienda sia per il lavoratore, con la necessità di tutelare il lato più debole del mercato del lavoro, quello dell’offerta, dei lavoratori, si può e si deve giungere a definire la struttura contrattuale portante dello stesso mercato del lavoro. Questa individuazione non può non discendere dall’obbiettivo finale che guida le scelte, e quindi anche i giudizi di bontà o di non bontà su qualsiasi evento o intervento. Alla luce del “bene comune” in senso economico (definito come situazione in cui, oltre alla creazione di un ambiente sociale che favorisca lo sviluppo integrale e l’espressione delle capacità delle persone, si abbia un’adeguata disponibilità per tutte le persone di beni di consumo di elevata qualità per la persona e la collettività; quindi beni, compresi i beni relazionali e i beni naturali, distribuiti in modo sufficientemente equo e rispetto alla quale è anche necessario, in via strumentale, che vi sia un corretto equilibrio fra consumi e investimenti, affinché tale disponibilità sia sostenibile, cioè destinata a durare nel tempo; ricordando peraltro che non è sostenibile il processo di creazione di valore economico se non c’è una parallela creazione di progresso delle persone, di valore umano) vi dovrebbe essere principalmente un tipo di contratto unico, che nasce come contratto a tempo indeterminato, con un adeguato periodo iniziale di prova, in un contesto istituzionale nel quale è curata in modo particolare la delicata fase dell’inserimento lavorativo dei giovani, attraverso un efficace collegamento fra la scuola e il mercato del lavoro. I contratti a tempo determinato dovrebbero essere possibili, ma quali eccezioni al normale istituto giuridico del contratto a tempo indeterminato; quindi non reiterabili se non in casi eccezionali e, al fine di contrastare gli abusi, presenti quando una relazione lavorativa prolungata viene frazionata in diversi contratti di lavoro a tempo determinato, creando una sostanziale incertezza nel lavoratore pur in presenza di un prolungato rapporto di collaborazione lavorativa, i contratti di lavoro a tempo determinato dovrebbero essere gravati di maggiori oneri parafiscali, così da, per un verso, internalizzare nell’azienda il disagio sociale che l’incertezza nei rapporti di lavoro crea e, per altro verso, coprire i più elevati costi che il contratto a tempo determinato ha rispetto ai contratti a tempo indeterminato, per la più frequente attivazione degli strumenti assicurativi che i primi necessitano e che comportano costi fissi per ogni attivazione. I contratti a tempo indeterminato dovrebbero essere rescindibili per giusta causa (motivi disciplinari et similia) o per seri motivi economici (per esigenze di riorganizzazione/riconversione, sempre che i lavoratori in esubero non possano essere reimpiegati in altre unità produttive della stessa impresa; per profonda crisi economica dell’azienda; non certo per crisi passeggere della domanda; quindi tendenzialmente non individuali, ma collettivi); non certo per motivi discriminatori nei confronti del lavoratore. Va da sé che, se il licenziamento non è effettuato per giusta causa o giustificati motivi, ma per motivi discriminatori o in assenza di seri motivi economici, esso è nullo e quindi il lavoratore dev’essere reintegrato nel posto di lavoro, ricevendo anche il risarcimento dei danni, retributivi e non, patiti. Infatti, se un atto è prodotto sulla base di un presupposto giuridicamente inesistente, gli effetti di tale atto vanno cancellati e dev’essere ricostituita la situazione preesistente; nel caso specifico, il rapporto di lavoro dev’essere ricostruito, a meno che il lavoratore non richieda lui stesso la risoluzione del rapporto di lavoro (per la manifesta impossibilità di ricostruire il rapporto di fiducia che deve sottostare al rapporto di lavoro), ricevendo un congruo indennizzo per l’interruzione, a lui non imputabile, del rapporto di lavoro. Diverso è il caso in cui la causa è giusta e i motivi sono giustificati, ma l’atto è annullato per vizi formali o altro; in questo caso, il reintegro va oltre il segno dell’equità e, più correttamente, si può applicare una sanzione che colpisca il comportamento scorretto del datore di lavoro, da devolvere al lavoratore nell’àmbito degli interventi di accompagnamento del lavoratore che ha perso il posto di lavoro. Avendo ben presente quanto or ora detto, la risoluzione dell’attuale crisi occupazionale dev’essere ricercata affiancando, agli interventi di solidarietà immediata volti a mantenere il reddito delle famiglie in difficoltà economica per perdita di lavoro, interventi per creare efficaci processi di orientamento e di riqualificazione per la mobilità dei lavoratori che facilitino il passaggio dei lavoratori cassintegrati, licenziati, con lavori precari ai settori e alle mansioni che presentano capacità di tenuta e di sviluppo. La mobilità fra le occupazioni crea flessibilità organizzativa ma, alla luce del bene comune, la mobilità non deve creare disagio economico e psichico nel lavoratore, bensì essere un’opportunità di miglioramento delle capacità e delle possibilità di trovare una nuova occupazione per il lavoratore coinvolto nel processo di mobilità lavorativa. Quanto scritto sopra trova la sua matrice nella Dottrina sociale della Chiesa, che, nel campo dell’economia del lavoro, chiaramente subordina le esigenze della produzione allo sviluppo integrale della persona, del quale il lavoro è un motore rilevante seppure non esclusivo e che emerge concatenando quanto scritto da papa Giovanni XXIII («Deve essere il capitale a cercare il lavoro e non viceversa», Pacem in Terris, § 56) con quanto scritto da papa Giovanni Paolo II («Il capitale è in funzione del lavoro e non il lavoro in funzione del capitale», Laborem Exercens, § 12, passim, e «il lavoro è “per l’uomo”, e non l’uomo “per il lavoro”», ibidem, § 6). Si aggiunga che il lavoro, in quanto «dignitoso» e svolto in un ambiente in cui siano assenti grandi disuguaglianze tra gli individui, i gruppi e le nazioni, ha un impatto positivo sullo stesso funzionamento del sistema economico, poiché crea coesione sociale, capitale sociale e sicurezza personale e sociale. Rimane comunque il fatto che le politiche di riforma riguardanti il lato dell’offerta aggregata possono essere “belle”, anche sul piano etico, ma sono inutili, ai fini della crescita economica, se non ci si impegna (con la flessione della morsa fiscale, la ripresa delle possibilità di erogazione di crediti bancari e una spesa pubblica di elevata qualità) per allungare il lato corto, che attualmente è quello della domanda aggregata. Daniele Ciravegna
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