Guido Galli un eroe involontario

La lettura del libro «Aula 309» scritto da Renzo Agasso (Sironi editore, pp. 205, euro 16,00) non è facile da sintetizzare per chi voglia recensirlo. Il motivo è semplice: l’autore è uno, ma i coautori sono molti, ciascuno con il suo stile, i suoi ricordi, le sue emozioni, attraverso i quali Agasso ha saputo dipanare un filo rosso comune, in un concerto perfetto.

Il quadro così composito ha un solo obiettivo, raccontare vita e morte di uno dei tanti cittadini italiani, in genere servitori dello Stato, uccisi dal terrorismo rosso negli anni cruciali Settanta e Ottanta del secolo scorso: il magistrato Guido Galli, assassinato il 19 marzo (festa di san Giuseppe e dei papà) del 1980 a Milano, in un corridoio dell’Università dove si era recato a tenere una lezione di criminologia.

Aveva quarantotto anni, era nato a Bergamo il 28 giugno del 1932. Come giudice istruttore aveva preparato il processo contro diciassette appartenenti a Prima linea e ad altre sei bande armate analoghe, operanti sotto sigle diverse, che si sarebbe aperto un mese dopo e si sarebbe chiuso con le giuste condanne nel giugno successivo.

Il lavoro preparatorio di Guido Galli era stato veloce, appena poco più di un anno, dopo l’arresto nel settembre del 1978 di Corrado Alunni, che era diventato il leader del gruppo Formazioni comuniste combattenti, stretto alleato di Prima linea, dopo aver fatto parte delle Brigate rosse e, successivamente, aver diretto la frangia militare di Autonomia operaia di Toni Negri.

Un lavoro istruttorio svolto da Galli con la precisione, la caparbietà, l’assoluta ricerca della verità senza pregiudizi che erano le caratteristiche consuete del suo operato giudiziario; ma quello che qui importa, riguardo al libro, è che intorno e accanto a quella indagine si legge la storia di tutto il terrorismo rosso, e soprattutto si fa emergere una verità troppo spesso dimenticata: l’enorme, incontrovertibile, stupida inconsistenza dell’ideologia di morte che Rossana Rossanda (certo una giornalista non “reazionaria”) definì giustamente «l’album di famiglia» della sinistra italiana.

Nei trentacinque capitoli di «Aula 309», tutti brevi e concisi, ma efficaci, si alternano le voci di otto magistrati che lavorarono in vari tempi e misure con Galli e ne descrivono l’ammirevole esercizio delle funzioni giudiziarie svolte nella sua carriera: Corrado Carnevali, Maria Luisa Dameno, Armando Spataro (il più vicino alla sua esperienza) Gian Luigi Fontana, Mario Corbetta, Piero Pajardi, Ferdinando Enrico Pomarici e Gian Carlo Caselli.

Dentro e fuori della magistratura, la fama di Galli sui media era di un giudice «riformista» e «garantista», come venne definito addirittura dai suoi assassini nella rivendicazione per telefono dell’attentato contro di lui all’agenzia Ansa. Una fama analoga aveva del resto l’altro giudice milanese Emilio Alessandrini, ucciso sempre da Prima linea (guidata da Marco Donat Cattin) un anno prima, il 29 gennaio del 1979, a trentanove anni, fermo in macchina a un semaforo dopo avere accompagnato a scuola il figlio Marco. Galli e Alessandrini sono due degli undici magistrati assassinati dai terroristi rossi o neri fra il 1976 e il 1980, l’anno più terribile, quando ne vennero uccisi ben cinque (fra i quali Agasso inserisce anche Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura).

Nel libro parla un sacerdote che conobbe benissimo Guido Galli, don Carlo Mazza, parroco di Piazzolo, la località montana della bergamasca che Galli frequentava con amore insieme alla moglie Bianca e ai quattro figli (più un nipote adottato dopo la tragica morte dei genitori, parenti della moglie, in un incidente) e nel cui piccolo cimitero fu sepolto, in una cerimonia senza nessuna partecipazione ufficiale (del resto Guido Galli non aveva avuto, e non aveva chiesto, nessuna tutela, nessuna scorta).

Don Carlo descrive il suo fortissimo amore per la famiglia e la sua fede religiosa: «Credente in una forma molto dimessa, quasi umbratile, schiva, senza esibizionismi. Però molto solida. Traspariva fin dalla postura che teneva in chiesa». Altrove si legge che Galli, da buon bergamasco, amava la montagna, ci andava spesso, con amici e figli, ma preferiva il sabato, perché la domenica ci teneva ad andare a messa.

E non manca, nel libro, la testimonianza di un avvocato milanese, Ennio Amodio, che lo aveva conosciuto lavorando con lui a un disegno di legge per il sostegno pubblico delle vittime dei delitti e a vari libri di cultura giuridica. Amodio lo descrive anche come un «bravo disegnatore» di «bellissime scene di battaglia, con i soldati, i carri armati, gli aerei». Una volta gli chiese «se, avendo pubblicato parecchi volumi e con una posizione all’interno dell’Università, volesse fare il concorso a cattedra per diventare professore ordinario. Mi rispose: no, io faccio il magistrato».

A questo proposito a pagina 16 Agasso annota un brano di una lettera che Galli scrisse a suo padre nel 1957: «…perché vedi, papà, io non ho mai pensato ai grandi clienti o alle belle sentenze o ai libri: io ho pensato soprattutto, e ti prego di credere che dico la verità come forse non l’ho mai detta in vita mia, a un mestiere che potesse darmi la grande soddisfazione di fare qualcosa per gli altri…».

Questo suo desiderio fu troncato, mentre avrebbe potuto continuare a realizzarlo per molti anni ancora, con un assassinio che nel libro è raccontato minuziosamente da uno dei quattro terroristi che vi parteciparono, Michele Viscardi, che fu arrestato nell’ottobre del 1980 e cominciò quasi subito a parlare favorendo in tal modo «una quantità di arresti in tutta Italia, tale da demolire Prima linea», come commenta Agasso.

Viscardi narrò agli inquirenti come lui e i suoi complici Albesano, Bignami e Segio arrivarono armati nel corridoio al secondo piano dell’Università dove Galli sarebbe passato per andare a tenere lezione nell’aula 309, e come fu Segio a sparargli tre colpi con una pistola Smith & Wesson 38 special, dopo averlo chiamato ad alta voce: «Galli».

Il magistrato cadde a terra e gli sfuggì di mano il Codice che restò accanto a lui. I terroristi fuggirono e sul suo cadavere fu messo un lenzuolo bianco. Pochi minuti dopo la notizia corse per tutta l’Università, dove al piano di sotto stava assistendo a una lezione la figlia Alessandra; lei corse subito sopra e vide il padre sotto quel lenzuolo, coperto di sangue.

Lo racconta essa stessa nell’ultima parte del libro, quando Agasso fa parlare uno dopo l’altro la moglie, Bianca Galli, le figlie Alessandra e Carla (entrambe magistrate, sull’esempio paterno) e i figli Giuseppe, Paolo e Riccardo (quello adottato); e infine il padre, Roberto, citato dall’opuscolo di 489 pagine da lui scritto in memoria del figlio nel settembre del 1980.

Da questi ultimi capitoli, di estrema commozione e pieni di particolari intimi, emerge la grande limpidezza del carattere di Guido Galli marito e padre, ma anche la composta dignità di una famiglia che ha saputo accettare il terribile dolore di quella tragedia. E’ quindi giusto chiudere questa recensione con la risposta che Bianca, Alessandra e Carlina Galli scrissero e resero nota subito dopo l’attentato: «A quelli che hanno ucciso mio marito e nostro padre. Abbiamo letto il vostro volantino: non l’abbiamo capito. Sentiamo ugualmente di dover scrivere queste righe, perché altri possano leggerle. Capiamo solo che il 19 marzo avete fatto di Guido un eroe e lui non avrebbe mai voluto esserlo, in alcun modo: voleva solo continuare a lavorare nell’anonimato, umilmente ed onestamente come ha sempre fatto. Avete semplicemente annientato il suo corpo, ma non riuscirete mai a distruggere quello che lui ha ormai dato per il lavoro, la famiglia e la società. La luce del suo spirito brillerà sempre, annientando le tenebre nelle quali vi dibattete».

Che poi quegli assassini siano oggi liberi, dopo le carceri, e ottengano ancora qua e là qualche ascolto, è un altro discorso, che non può contaminare la bellezza di un libro che va letto soprattutto dai giovani e da quanti potrebbero ancora essere tentati, trent’anni dopo, di rispondere con il terrore alla ricerca della giustizia di cui Guido Galli fu operatore tenace fino alla ingiusta morte.

Beppe Del Colle



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