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Ricordi di mondi scomparsiGyula Krudy (1878-1933) è lo scrittore ungherese più celebre dell’inizio del Novecento. Erede di Jokai e Mikszath, recuperò la lezione di Zola, Turgenev e Dickens rivelando una fertile vena narrativa. Scrisse un centinaio tra romanzi e racconti, non tutti di grande rilievo. Tra le sue opere più interessanti citiamo «La carrozza cremisi» (1913), forse il suo capolavoro, la raccolta di novelle «Via della Mano d’oro» (1916), «Il premio delle donne» (1919), con pagine intense sulle allucinazioni di una ragazza di provincia durante le doglie, e «Sette civette» (1922). La Budapest del Biedermeier e l’Ungheria feudale dei magnati e della piccola nobiltà di provincia furono per Krudy una sorta di età dell’oro. Ne «La carrozza cremisi», epopea mitica di un mondo scomparso, quello della Budapest della Belle Epoque, percorsa dai sogni e dalle passioni di artisti, attricette di provincia, intellettuali semifalliti e aristocratici eccentrici, scrive: «La letteratura è un terribile veleno. Infetta il sangue dei borghesi e delle borghesi che l’assaggiano. Gli scrittori sono tutti degli impostori. Dicono che il loro lavoro è una maestria regale e la più illustre delle occupazioni. Ma in realtà nessuno ha bisogno della letteratura. La gente sarebbe molto più felice se non ci fosse la letteratura. Continuerebbe a nascere, ad amare, a morire. La grande, la splendida Vita non ha niente in comune con le piccole, fitte letterine dell’alfabeto». Questa professione di fede antiletteraria è in realtà un elogio nascosto e ironico della scrittura. Krudy usava lo pseudonimo di Sindbad il marinaio, il personaggio delle «Mille e una notte» che spesso compare anche nella sua narrativa e diventa il protagonista di «Sindbad torna a casa» (Adelphi, traduzione di Marinella D’Alessandro, pp. 194, euro 18,00) di Sándor Márai. Scritto nel 1940, anticipa di due anni il suo capolavoro, «Le braci», già annunciato in queste poche righe: «Nella stufa di ghisa il fuoco era ormai spento, tra le braci era ormai ridotto in cenere quel pacco di lettere legato con lo spago in cui era racchiuso un segreto noto soltanto al defunto». A cinquantaquattro anni, alle soglie della morte, Sindbad, «scrittore immeritatamente dimenticato», dopo una vita vagabonda, si è trovato una moglie con cui vivere insieme alla figlia di lei. In una bella giornata di maggio esce di casa per raggranellare qualche soldo e comprare un vestito alla ragazza. Prende una carrozza e, cullato da quel piacevole dondolio, dialoga col vetturino mentre viaggia lungo le sponde del Danubio. Sindbad è uno scrittore gentiluomo, l’ultimo testimone della vecchia Ungheria. Va al bagno turco, dove «Occidente e Oriente si confondevano nella nebbia bollente», per rilassarsi, nelle redazioni dei giornali per consegnare un articolo, poi al caffè Chicago, un tempo frequentato da giornalisti e dandy, poeti maledetti ormai scomparsi come Csáth, che distrusse con la morfina la sua vita debosciata. Va alla ricerca di «quei cavalieri delle nebbie e quei fantasmi, quegli spettrali viandanti dell’anima ungherese, quei misteriosi giocolieri dello spirito, fanciulli ed eroi, solitari e zingareschi, chiacchieroni e taciturni». «Senza il caffè la letteratura non esiste», dice il capocameriere del caffè Chicago. Era questo il luogo dove gli intellettuali e gli scrittori conversavano, passavano il tempo e scrivevano, osservando dal loro angolo i personaggi curiosi e bizzarri che lo frequentavano. Il protagonista di questo romanzo non era mai andato all’estero perché «si sentiva bene solo in Ungheria», e l’unica volta che aveva voluto vedere il mare era andato a Fiume, che faceva parte dell’Ungheria fino al crollo della monarchia austroungarica. Sindbad disprezza il mondo contemporaneo, che «faceva affamare gli scrittori e preferiva sborsare quattrini per ammirare smorfiose dive del cinema anziché per un buon libro», e non si sente più a suo agio a Budapest, «città vanagloriosa, fatua e pettegola, dove persino i camerieri erano al corrente delle delusioni e delle passioni segrete di ognuno dei loro clienti abituali». Sa che ormai in questa città la felicità non è più in vendita, «si vendevano soltanto l’ambizione, la vanità, la fame di denaro». Poi va al ristorante London, attorniato dalla premura del maître e dei camerieri. Il suo piacere più grande è quello di leggere il menù, perché poi, quando cena, nessun piatto lo soddisfa. Prima dell’alba, rientra a casa in carrozza, dimentico dei regali che doveva fare alla moglie e alla figlioletta, si mette a letto e rivive il mondo dei personaggi de «La carrozza cremisi»: «Sindbad, il marinaio, aveva la sensazione che ora, finalmente, dopo molti vagabondaggi senza costrutto e senza speranza, la carrozza cremisi si fosse veramente avviata verso casa con i suoi passeggeri». Si conclude così questo viaggio nostalgico «per ritrovare i ricordi della vita e del mondo scomparsi». Alla fine il protagonista capisce che «bisogna andarsene via per tempo da un mondo con cui, in realtà, non abbiamo più nulla da spartire». Con questo romanzo Márai ha raccontato una flânerie sentimentale nel mondo perduto dell’Ungheria felix, che è un appassionato omaggio al suo maestro e modello di letteratura e di vita. Nel 1948, dopo l’arrivo dei russi, si è sentito soffocato nella sua libertà creativa, ha lasciato il suo Paese senza farvi più ritorno ed è morto suicida a San Diego, in California, dopo la morte della moglie, sulla soglia dei novant’anni. Massimo Romano
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