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Rivoluzione etica nei deliri giovaniliChi nella sua vita si è spesso occupato di cronaca nera, e chi si è appassionato nel leggerla sui giornali o guardarla in tv, non si stupisce di nulla. Assassinii ce ne sono sempre stati, anche commessi da minorenni: inutile fare nomi e ricordare eventi criminosi di ogni specie, colpevoli e vittime (anche madri, padri, fratelli e sorelle), luoghi e culture (o subculture) di riferimento, nel Nord come nel Sud. Ma quello che sta succedendo oggi in Italia non è facile da omogeneizzare con il passato. Innanzitutto, c’è la liquefazione di un’etica generale che nasceva, bene o male, nelle famiglie, nelle scuole, negli oratori, negli spogliatoi dei campi da gioco sportivi. Lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet ha osservato, parlando con «La Stampa», che lo sfondo su cui si situa l’attuale cronaca nera sui minorenni è «una cultura del narcisismo trasversale», che impone di «essere amato attraverso la sottomissione dell’altro, non accetti il no, l’emancipazione. I comportamenti che vediamo, lo stalking e, nei casi estremi, l’assassinio nascono da questa pretesa. Se la persona che ami non ti vuole, pensi che sia impazzita». Il rimedio? «Ritornare all’etica, dopo questa sbornia estetica». Nemmeno questo sarà facile. Oggi l’etica la formano due entità praticamente incontrollate: la televisione e soprattutto la “rete”. On line non solo si dice e si scrive tutto, ma si impone tutto, a cominciare dalla libertà di trasmissione e divulgazione delle immagini delle fotografie di assassini e di vittime; e gli esempi non mancano. Prendiamo due crimini di questi ultimi tempi. Il suicidio “provocato” a Oleggio, nel Novarese, da parte di una ragazza di 14 anni, di nome Carolina, che non ce l’ha più fatta a leggere su Facebook le cose che la riguardavano, il suo amore finito per un ragazzo che dopo il suo «no» la umiliava in “rete” divulgandone foto imbarazzanti, con i suoi amici che ne ripetevano on line le nefandezze, e si è gettata dal balcone del terzo piano di casa sua. E il feroce assassinio, durato ore ed ore, di un’altra sua coetanea in Calabria, Fabiana, da parte di un ragazzo, di nome Davide, che non ha ancora compiuto diciotto anni e che voleva punirla o perché lei non ci stava più, o per gelosia, o perché, come dice quello psichiatra, non poteva sopportare che Fabiana turbasse la sua virile autostima e il suo diritto privato al dominio su di lei, prendendolo o lasciandolo a seconda dei giorni, degli umori o di nuove amicizie. Per questo, dopo averla portata col motorino in un luogo inabitato fuori di Corigliano, le ha inferto una ventina di coltellate dopo l’ennesimo litigio, lasciandola a dissanguarsi in un bosco; poi è andato a comprare una tanica di benzina, è tornato dopo un’ora e sebbene Fabiana lo dissuadesse disperatamente dal farlo, gliel’ha gettata addosso e le ha dato fuoco. Arrestato, prima ha cercato di negare, poi ha confessato e ha chiesto agli investigatori di lasciarlo dormire, perché gli era venuto sonno. Qualche ora dopo sono cominciate sul web la sarabanda delle interpretazioni del crimine, personali o psico-sociologiche; la diffusione delle immagini di Fabiana, bella, sorridente, in posa da ballerina classica, come voleva diventare, e illusa, ma con le maniche lunghe per non mostrare i lividi delle percosse ricevute dal suo “fidanzatino” (come si usa ora dire e scrivere infantilmente); le versioni contraddittorie sui precedenti nella coppia; le sfilate dei compagni di scuola dei due con cartelli, striscioni e urla, di pietà, di amore, di giustizia, di vendetta. Con la mamma di Fabiana che dice al vescovo «Anche Davide è una povera vittima»: vittima di che cosa? Del narcisismo maschile, della fine dell’etica, delle abitudini locali a portare sempre con sé un coltello? Chissà. Uno dei compagni di Davide ha ricordato: «Tra noi è sempre stato tranquillo, socievole, ci trattava bene. Proteggeva sempre la nostra classe. La mattina dell’omicidio non era andato a scuola, come molti di noi, perché la sera prima eravamo andati a una festa e avevamo fatto troppo tardi. Di Fabiana non parlava mai. Il rapporto era solo suo e basta». Un ritratto perfetto, in tutto: anche nell’affermare con tranquilla semplicità, come un sereno rilievo naturale, che a scuola non si era andati, quel giorno, perché la sera prima si era fatto tardi, a una festa. E nel confermare che in Calabria (ma non solo laggiù) chi comanda (o vorrebbe comandare: i tempi cambiano) nella coppia è il maschio, sono fatti suoi e basta”. E invece non basta: ci sono i social network e lì ci trovi di tutto: meno un’etica generale che nessuno è più in grado di rappresentare. O così sembra. Questo numero de «il nostro tempo» non è solo lo specchio della realtà diffuso in termini di cronaca nera, ma vuole essere il ritratto di un Paese “smarrito” che combatte prevalentemente a parole la crisi economico-finanziaria, non riconosce più alla politica le funzioni tradizionali di una democrazia insidiata sempre più profondamente dalla corruzione, compromette il futuro delle due ultime generazioni che non trovano lavoro o lo trovano precario e poco pagato, e manifesta in ogni angolo, anche i più lontani dal Sud raccontato da Saviano, le tracce della malavita organizzata sempre più diffusa, e vede infine crescere il divario fra ricchi e poveri (cala continuamente il numero delle automobili prodotte e vendute, ma in strada non si sono mai viste come adesso vetture così belle, grandi, tecnologicamente avanzatissime, soprattutto straniere, ma costosissime). Se questa è una delle facce dell’Italia contemporanea, l’altra faccia è quella che esce dalla sua lontanissima ma pur sempre valida immagine spirituale e culturale: la fede religiosa. Sarà una coincidenza, ma non è casuale: la settimana scorsa è morto a Genova don Andrea Gallo, da anni il prete più famoso d’Italia per la sua innata vocazione al servizio dei poveri; ed è stato beatificato don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia, un altro prete che si era fatto un nome nazionale per il coraggio e soprattutto la vocazione al servizio dei giovani di Palermo per sottrarli al male. Entrambe le manifestazioni dedicate a loro nelle rispettive città, un funerale in cattedrale e una beatificazione in piazza, hanno attirato migliaia e migliaia di persone, credenti e non credenti. La speranza di tutti noi, cittadini italiani, non è certo morta con don Gallo e don Puglisi. La cronaca nera non è il paradigma della vita umana, all’etica si può tornare, sia pure con i “segni dei tempi” individuati e illustrati da due papi dell’altro secolo, Giovanni e Paolo, e indicati ogni giorno dal papa di questo secolo, Francesco. Se possiamo dare una mano, diamola. Beppe Del Colle
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