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Israel un grande anche luiIsrael Joshua Singer (1893-1944) e il più celebre fratello minore Isaac Bashevis Singer (1904-1991), premio Nobel nel 1978, figli e nipoti di rabbini, furono i più grandi scrittori polacchi di lingua yiddish. Israel, attratto e poi deluso dalla rivoluzione bolscevica, negli anni Venti pubblica a Varsavia racconti di taglio impressionista e naturalistico. Nel 1932 esce il suo primo romanzo, «Yoshe Kalb», tradotto in italiano nel 1984 dagli Editori Riuniti, torbida passione del protagonista per la quarta moglie diciottenne del vecchio padre, riscattata dal pentimento nel finale. Nel 1933, con l’avvento del nazismo, si trasferisce negli Stati Uniti dove scrive «I fratelli Ashkenazi» (1936), tradotto da Longanesi nel 1970, grande affresco dell’ebraismo polacco. Nel 1943 pubblica «La famiglia Karnowsky», un anno prima di morire per infarto a cinquantun anni. Questo splendido romanzo, scritto in yiddish, poi tradotto in inglese e in francese, appare ora per la prima volta in italiano (Adelphi, traduzione di Anna Linda Kallow, pp. 498, 20 euro). Narra con respiro epico le vicende di una famiglia di ebrei orientali, i Karnowsky appunto, dalla fine dell’Ottocento allo scoppio della Seconda guerra mondiale. E’ diviso in tre parti, dedicate al succedersi di tre generazioni, nonno, padre e figlio. David, il capostipite, che vive a Melnitz, un villaggio della Polonia, litiga con i rabbini hassidici, che considerano eretico il suo libro di preghiere commentato da Moses Mendelssohn, in cui la religione ebraica si fondeva con l’illuminismo, e con la moglie Lea si trasferisce a Berlino. David frequenta la migliore società berlinese e si sente perfettamente integrato seguendo il motto «essere ebrei in casa e uomini in strada: ebreo tra gli ebrei e tedesco fra i tedeschi», mentre Lea, che parla a fatica il tedesco, si sente estranea e ha nostalgia dello shtetl, la piccola comunità contadina e artigiana del villaggio polacco. Emerge qui uno dei grandi temi dell’ebraismo: il conflitto tra la difesa della propria identità e il desiderio di assimilarsi alla società e ai costumi dei Paesi nei quali si vive. In Germania esiste una frattura profonda tra gli ebrei colti e ricchi, integrati nella società, e gli ebrei orientali, gli ostjuden, poveri e semplici, legati alla spiritualità del chassidismo e ai costumi tradizionali. Il figlio Georg si compra vestiti eleganti, frequenta caffè e birrerie, se la spassa con le commesse. Conosce il dottor Fritz Landau, un medico vegetariano e salutista che cura la gente povera, e sua figlia Elsa, che studia medicina e gli fa da assistente. Georg si innamora di lei, che però non vuole sposarsi per dedicarsi alla scienza e all’impegno politico nei circoli operai. Sotto la sua influenza, Georg diventa medico e allo scoppio della guerra parte per il fronte, dopo aver trascorso una notte d’amore in albergo con Elsa. Nel dopoguerra diventa un celebre ginecologo e sposa Teresa, una sua infermiera di religione cristiana, nonostante l’opposizione del padre. Nasce un figlio, Jegor, un bambino sensibile che ha paura del buio. Al liceo il ragazzo viene umiliato dal preside che lo costringe a spogliarsi davanti ai compagni per mostrare la superiorità della razza ariana rispetto a quella negro-semitica. L’antisemitismo cresce insieme all’inflazione e Jegor si entusiasma per «gli uomini in stivali» che sfilano per la città, cantano e marciano nelle parate, scrivono la parola jude sulle vetrine dei negozi. Fragile, isterico e nevrotico, si sente un ariano e disprezza la razza di suo padre, costretto a curare soltanto donne ebree e a svendere la cilinica. Si diffonde la leggenda metropolitana secondo la quale gli ebrei sono accusati di «aver pugnalato la patria alle spalle» durante la guerra, per cui anche chi non si sente più ebreo viene spinto dal nazismo a riscoprire tragicamente la sua identità. Così, insieme a tante altre, la famiglia Karnowsky decide di emigrare e attraversare l’oceano. New York è una metropoli allegra e caotica, in cui si assapora un senso di libertà e gli ebrei si sentono a casa, piena di sinagoghe, ristoranti kasher, cinema, botteghe di barbieri, minuscoli chioschi di frutta, frastuoni di radio che escono dalle finestre aperte. Qui i Karnowsky ritrovano Solomon Burak, un venditore ambulante di Melnitz che era diventato ricco aprendo un grande emporio a Berlino. E’ arrivato in America prima degli altri dopo aver perso tutto, ma ora col suo fiuto per gli affari è di nuovo ricco e grazie a lui David diventa scaccino della sinagoga e Georg venditore ambulante. Jegor vuole tornare in patria e si mette al servizio di un losco personaggio, che poi lo abbandona per la sua inettitudine a fare la spia. Senza denaro, conduce vita vagabonda e dissipata fino a abbrutirsi con un delitto, poi torna a casa e si spara al petto. L’ultima scena del romanzo è quella di Georg che, aiutato dalla moglie infermiera, tenta di estrargli la pallottola. Dopo aver letto le cinquecento meravigliose pagine di questo libro, non si può certo dire che Israel sia meno talentuoso del più celebre fratello Isaac: forse descrive meno gli interni e il paesaggio, ma si concentra di più sui personaggi. E’ curioso che Israel non usi mai la parola «nazisti», ma sempre «uomini in stivali». Qualche lettore si potrebbe anche chiedere perché Singer non faccia neppure un cenno allo sterminio e ai forni crematori. La risposta è che ancora non li conosceva. Massimo Romano
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