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Kechiche, una palma dovuta?Adèle ha 15 anni, va a scuola, partecipa con interesse alle lezioni di francese, legge tutto d’un fiato «La vie de Marianne» di Marivaux, avverte su di sé le inquietudini di un’età confusa e le pulsioni di una sessualità contraddittoria, cercando un proprio spazio affettivo. Non lo trova con uno studente più grande di lei di qualche anno. Lo vive, invece, in una pienezza totale e destabilizzante, con una giovane pittrice dai capelli blu. Adattando per il grande schermo, con parecchie libertà, il fumetto «Il blu è un colore caldo» di Julie Maroh, Abdellatif Kechiche vince la Palma d’oro del 66° Festival di Cannes con «La vie d’Adèle, chapitre 1 e 2», un film su un desiderio, quello omosessuale, che trova realizzazione, nel lungometraggio del regista di «Cous cous» e «Venere nera», in una carnalità tutta al femminile che non lascia davvero nulla all’immaginazione. Radiografia dell’anima, osservazione in dieci anni della vita di una ragazza, Adèle appunto (dal liceo, come studentessa, all’insegnamento in una scuola materna), la pellicola del regista franco-tunisino non si ferma sulla soglia dell’affettività, entrando invece nel privato più segreto della vita di due donne. Una dimensione intima che Kechiche esplora con inequivocabili, esplicite attenzioni, facendo leva su due protagoniste, Adèle Exarchopoulos (la Adèle del film) e Léa Seydoux (l’amante pittrice) capaci di far confluire su di sé un intero repertorio di sensazioni, gioiose e amare, felici e tristi, serene e rabbiose. Di «Inside Lewyn Davis» dei fratelli Coen e «Like father, like son» del giapponese Hirokazu Kore-eda, ripagati meritatamente dal loro passaggio sulla Croisette rispettivamente dal Gran premio della giuria e dal Premio della giuria, abbiamo riferito la scorsa settimana. Alla riflessione sull’elenco dei vincitori di Cannes 2013 mancano invece «Heli» del messicano Amat Escalante (Premio per la migliore regia), «A touch of sin» del cinese Jia Zangh Ke (migliore sceneggiatura) e «Nebraska» dello statunitense Alexander Payne (che ha portato al riconoscimento per il migliore attore il suo protagonista, Bruce Dern), mentre di «Le passé» dell’iraniano Asghar Farhadi, che ha permesso a Berénice Béjo di trionfare come migliore attrice del concorso, abbiamo parlato sul numero scorso di questo giornale. Tra i titoli menzionati, tutti significativi, il più meno incisivo è «Heli». Nel flm di Escalante, ambientato in un piccola città messicana, un ragazzo, che vive facendo l’operaio assemblando automobili, deve trovare suo padre scomparso misteriosamente. Lo farà anche grazie a un “cartello” della droga, aggirandosi tra corruzione, sfruttamento sessuale, sensi di colpa e di vendetta, ma senza trascurare l'amore. Questo duro cortocircuito esistenziale è raccontato dal regista in flashback, con un vasto repertorio di crudezze, riportando l’azione ad un “prima” e un “dopo“ senza comunque a riuscire a generare nello spettatore un reale, profondo interesse alle vicende. Atmosfere analoghe, ma con maggiori giustificazioni narrative, in «A touch of sin». Quattro personaggi, quattro luoghi geografici, quattro storie di ordinaria violenza, un unico, sofferto ritratto dalla Cina contemporanea. Dopo «Still Life», leone d’oro a Venezia nel 2006, e «24 city», con il suo nuovo film Jia Zhang Ke sceglie di raccontare il proprio Paese amplificando le contraddizioni che più lo attraversano: il disagio sociale, la corruzione, il divario tra ricchi e poveri, la migrazione interna di chi cerca occupazione, la speranza di una vita migliore. Ispirandosi a quattro fatti di cronaca, tutti conclusi da omicidi o morti volontarie, il regista cinese esplora le vite disilluse di un minatore, un operaio, una receptionista, un lavoratore precario, immergendo le loro fragili esistenze all’interno di un mondo in rapida evoluzione, che non lascia spazio alla coscienza individuale e spinge, come unica via di fuga, alla ribellione violenta. Nei dialoghi di «A touch of sin», tra i personaggi che popolano sia le grandi città che le vaste regioni rurali, compaiono parole fino a pochi decenni fa impensabili per il Paese della grande muraglia, come «Macerati», «night club», «dividendi». Sono gli effetti di una crescita economica senza controllo, che il film di Jia Zhang ke mostra nei suoi effetti più istintivi e distruttivi, esplosioni esterne di un malessere interiore che lo spettatore non fa fatica a cogliere. Ben altro clima in «Nebraska», commedia dolceamara, semplice ma dal respiro lungo, sui rapporti genitoriali, viaggio con mote soste, lungo le strade dell’America periferica, dal Montana al Nebraska, per ripercorrere e rinsaldare lo smarrimento di un padre e la delusione di un figlio. Tutto questo, per l’appunto, nel nuovo film di Alexander Payne, girato in bianco e nero, ennesima variazione, sullo spartito narrativo del regista di «Paradiso amaro» e «Sideways», di quel cinema dal volto umano che ha per protagonisti uomini fragili dai legami precari, raccontati nella loro anonima quotidianità attraverso il filtro dell’ironia. La cocciuta determinazione dell’anziano genitore interpretato da Bruce Dern, che crede d’aver vinto un milione di dollari alla lotteria solo perché così annunciava un astuto messaggio pubblicitario, è il cuore narrativo di «Nebraska», che spinge l’uomo e il figlio, impiegato in un negozio di elettrodomestici, a partire insieme in auto, dopo molte ritrosie, verso la città natale del vecchio, facendo finta di andare a riscuotere in un ufficio postale l’inesistente premio. Come in tutti i film di Payne, anche qui il viaggio è il momento cruciale per far affiorare i fantasmi del passato, regolare i conti con se stessi e con gli altri e guardare al futuro con occhi nuovi. Le speranze svanite, gli amori dimenticati, le eterne rivalità: dopo molte birre e tanti incontri, alcuni piuttosto spigolosi, tutto ritorna a galla. Una memoria privata, in «Nebraska», che rivissuta nei luoghi di gioventù esce del recinto esistenziale del padre, stanco e malfermo, per essere condivisa, poco alla volta e non senza malumori, dall’intera sua famiglia. Altre pellicole escluse dal palmarès, come «La grande bellezza» di Paolo Sorrentino (di cui scriviamo nella pagina accanto), non hanno sfigurato in concorso, in un’edizione complessivamente tra le migliori degli ultimi anni. «Michel Kohlhaas», ad esempio, ispirato al titolo di una novella di Heinrich von Kleist ambientata nel XVI secolo, è stato ben accolto dalla critica. Incentrato sulla storia vera di un ricco mercante di cavalli (impersonato da Mads Mikkelsen), un uomo pio e onesto con una famiglia felice che dopo aver subito un'ingiustizia da parte di un signorotto locale, intenzionato a far rispettare i propri diritti, aggrega un piccolo esercito e mette a ferro e fuoco la città dove vive, il film di Arnaud des Pallières trasferisce il luogo del racconto (non più la Germania, ma la Francia montuosa del sud) e crea alcuni personaggi secondari non presenti nel testo originale. Il risultato è un lavoro affascinante, con poche parole e tanti rumori d’ambiente, immerso in una cornice geografica aspra e suggestiva, che nei suoi riflessi pittorici richiama l’epoca storica di riferimento, ma che estende i temi di fondo (il diritto alla giustizia, l’applicazione della legge e il conflitto tra Stato e individuo), alla contemporaneità. Un teatro vuoto, un palcoscenico spoglio, con poche scenografie in scena, le luci soffuse in platea, il regista della pièce che ha appena finito le audizioni e sta lamentandosi, al telefono, dell’inadeguatezza delle pretendenti al ruolo, un’ultima, ritardataria e sfacciata attrice venuta a fare il provino fuori tempo massimo. Comincia così «La Vénus à la fourrure», con un inizio che sembra un finale e due soli personaggi in scena, filmati dalla macchina da presa, che in un’ora e mezza di proiezione danno vita ad un autentico duello verbale giocato sul filo pericoloso della seduzione. Il nuovo film di Roman Polanski dimezza il quartetto di «Carnage» e carica sulle sole spalle di Emmanuelle Seigner e Mathieu Amalric l’adattamento teatrale della «Venere in pelliccia» di Sacher-Masoch. Un continuo gioco di specchi, tra il libro omonimo datato 1870, la traduzione per il palcoscenico operata da David Ives e la conseguente trasposizione cinematografica effettuata da Polanski. Ciò che non cambia, al di là delle inevitabili riscritture del testo, è l’intrigante cortocircuito tra verità e finzione, realtà e immaginazione. Quando il regista dello spettacolo, dopo forti ritrosie, accetta di sottoporre al provino l’invadente candidata, lo spettatore viene introdotto in un continuo ribaltamento di personalità. Entrambi, il regista e l’attrice, entrano ed escono più volte dalle parti assegnate e Polanski, senza perdere mai di vista il dramma che sta alla radice della disputa esistenziale, innesca con indubbia bravura la miccia della commedia. Paolo Perrone
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