Cannes: i bambini ci guardano

La parola d’ordine, almeno nelle intenzioni degli organizzatori, è «passione». Una passione (cinefila, ovviamente) riassunta dal manifesto della 66ª edizione del Festival di Cannes, con Paul Newman e la moglie Joanne Woodward protagonisti di un romantico bacio.

Per quel che ha offerto finora (quando questo giornale va in stampa sugli schermi del Grand Theâtre Lumière e del Theâtre Debussy è stato proiettato un terzo dei film in gara per la Palma d’oro), la Croisette non è stata affatto avara di passione. Con una nota dominante, uno sguardo attento e sensibile all’infanzia, a quei bambini che, per citare Zavattini e De Sica, ci guardano, osservano gli adulti, i loro comportamenti, la loro realtà.

Di padre in figlio. Un film delicato sulle responsabilità di essere genitori, un’indagine doveroso sulle scelte necessarie tra lavoro e famiglia: «Like father, like son» del giapponese Hirokazu Kore-eda, ha strappato applausi, alla proiezione riservata alla stampa. Applausi meritati, non solo per il tema affrontato, vissuto in prima persona dal regista, padre di una bambina di cinque anni, ma anche per le modalità narrative, sospese tra riflessione interiore e commedia sociale. La molla che fa scattare il racconto è una telefonata, ricevuta da una famiglia benestante con un figlio di sei anni, in cui l’ospedale nel quale è nato il piccolo annuncia l’errore e lo scambio, dopo il parto, con un altro neonato, figlio di una coppia di modeste condizioni economiche, che vive con altri due bimbi in campagna, lontano dai grattacieli della città.

Con pennellate di tenerezza e di ironia, abbassando l’osservazione della vita quotidiana all’altezza dell’infanzia, di una spontaneità che accetta a fatica le sovrastrutture dei grandi, «Like father, like son» fa emergere condivisibili dubbi morali: se debba prevalere la natura, cioè i legami di sangue, il dato biologico, procedendo dunque con lo scambio dei rispettivi bambini tra le due famiglie, o se invece sia più importante, per entrambe le coppie, non rompere l’equilibrio affettivo costruito tra genitori e figli nei sei anni trascorsi con i propri piccoli. La risposta, ci dice il film di Kore-eda, si trova nel cuore di ciascuno di noi. Ed è lì, aiutati dal candore dei bambini, che possiamo ritrovare, oltre a loro, anche noi adulti.

Anche in «Le passè», il nuovo lungometraggio di Asghar Farhadi, i bambini sono il catalizzatore e, al contempo, il detonatore delle dinamiche relazionali adulte. Come in «About Elly» (il film che ha rivelato al pubblico internazionale il regista iraniano) e, soprattutto, in «Una separazione» (vincitore dell’Oscar per il migliore film straniero 2012) è l’assenza (per circostanze tragiche, nel primo caso, o per volontà individuale, nel secondo) a contrassegnare il cinema di Farhadi. Una frattura, un distacco, una divisione che ritroviamo in «Le passè», girato a Parigi, che lascia comunque dietro di sé tracce di vita, prolungando, seppure mettendoli a dura prova, i legami affettivi.

La separazione della coppia, stavolta, è già avvenuta: Ahmad torna a Parigi da Teheran perché Marie, la moglie che ha lasciato quattro anni prima, ha bisogno di lui per formalizzare il divorzio. Ma a complicare le cose è la presenza dei figli, i propri e quelli avuti da altre relazioni, soprattutto la ragazza più grande, con cui Marie ha un rapporto difficile. Tutti i protagonisti, in «Le passè», vedono le proprie, fragili certezze sentimentali rimesse in discussione. La macchina da presa di Farhadi registra con linearità il delinearsi delle relazioni tra i personaggi, e i molti dialoghi su cui è costruito il film mantengono teso il racconto, attribuendo alle vicende un’estrema naturalezza. Davvero bravi gli interpreti, soprattutto Berénice Béjo, ammirata in «The Artist», qui nei panni sofferti di Marie.

Spesso, però, al cinema, i bambini non sono solo osservatori ma purtroppo anche vittime degli adulti. In «Borgman» un individuo sinistro  e barbuto scappa da un rifugio scavato sottoterra e suona alla porta di casa di una famiglia benestante, in un villaggio residenziale della campagna olandese. E’ questo l’inizio del nuovo film di Alex Van Warmerdam. Chi è il protagonista, il Borgman del titolo? Un barbone? Un demone interiore? L’incarnazione delle nostre paure? Giocando sullo straniamento, il film del regista olandese compone un’allegoria inquietante, dove il male si impossessa della natura umana e sconvolge l’esistenza serena di una coppia borghese, dei tre loro figli e della ragazza che fa loro da tata. Come in «The last days of Emma Blank», il film precedente di Van Warmerdam, commedia nera su una donna vicina alla morte che tiranneggia i propri parenti, anche «Borgman» punta alla confluenza di grottesco e tragico, comico e drammatico, criticando con ostinata radicalità il sistema famiglia, immaginandolo teatro di rancori sospesi che non aspettano altro di esplodere. Un obiettivo che il film, sulla scia di lavori ben più densi come «Teorema» di Pasolini, «Funny Games» di Haneke e «Cape Fear» di Scorsese, raggiunte pienamente, ma che non salva la pellicola di Van Warmerdam da una evidente, sterile programmaticità.

Anime fragili. Sugli schermi italiani è uscito da poco «Nella casa», affascinante riflessione sulla potenza manipolatrice della scrittura, ma al 66° Festival di Cannes François Ozon ha portato in concorso il suo nuovo film, «Jeune e jolie», giovane e carina. Sono le caratteristiche, evidenti, di una studentessa di diciassettenne anni che d’estate scopre la sessualità e in autunno comincia a prostituirsi fissando ripetuti appuntamenti via internet. Una decisione, quella di vendere il proprio corpo, dovuta, forse, ad una profonda solitudine, a quella zona d’ombra che oggi sembra avvolgere molti adolescenti in crisi identitaria, ma alla quale «Jeune et jolie», strutturato in quattro atti, ognuno dei quali intitolato ad una stagione, non offre soluzioni, limitandosi ad osservare senza giudicare.

Ad una scelta che rivela insicurezze caratteriali, fragilità interiori e un inquietante bisogno di affermazione, Ozon sembra opporre solo la forza descrittiva dello sguardo cinematografico, mostrando Isabelle nelle sue avventure morbose con uomini maturi, lasciando trapelare, nell’equilibrio familiare della ragazza, l’assenza di figure genitoriali attente e credibili. Troppo poco, per l’esplorazione psicologica dell’adolescenza e delle sue malinconie segrete, troppo poco, anche in rapporto ad altre recenti, riuscite pellicole del regista francese: oltre a «Nella casa», «Potiche» e «Il rifugio».

Primo lungometraggio girato negli Stati Uniti dal francese Arnaud Despleschin, inseguito a lungo e covato con ogni attenzione, «Jimmy P.», adattamento del libro «Psicoterapia di un indiano delle pianure» di Georges Devereux, è un film tanto eloquente dal punto di vista visivo e scenografico quanto incompiuto sul piano emotivo. La storia del reduce indiano della Seconda guerra mondiale, ferito alla testa, tempestato da visioni, malori, incubi e da una serie di sintomi che inducono i medici a pensare che sia affetto da schizofrenia, non arriva a suscitare un vero interesse, perdendosi in un repertorio infinito di dialoghi. E nemmeno le interpretazioni di Benicio Del Toro nei panni del paziente, e di Mathieu Amalric in quelli dell’antropologo incaricato di curarlo, con i loro continui incroci verbali, riescono a generare nel pubblico intensità e partecipazione.

Dalle pagine del libro ai fotogrammi del film, dunque, si è smarrito il cuore stesso del progetto, quel rapporto tra James Picard e lo stesso Devereux, nutrito di antinomie caratteriali e di simmetrie latenti, di senso di abbandono e di euforica vitalità, così come fatica ad emergere la complessa analisi etnografica e psicologica condotta dall’antropologo nelle sue sedute. «Jimmy P.», sui titoli di coda, resta così un film senz’anima, arrivando a completare, come da copione, la parabola contrapposta dei destini dei due uomini, ma sfiorando appena la loro segreta sofferenza e la loro intima complicità.

La musica del cuore. La scena folk dei primi anni Sessanta, con un giovane cantante in cerca del successo. Non è la prima volta che i fratelli Joel e Ethan Coen, attraverso la musica, riscrivono il passato. Ci avevano già provato con «Fratello dove sei?», che con le sue dolenti note country rievocava l’America della depressione. Ora, continuando a riassumere grandi scenari epocali in piccole storie minimaliste, hanno strappato applausi e sorrisi alla critica, a Cannes, con «Inside Llewyn Davis», un film, ispirato alla figura del cantante folk Dave Van Ronk, che coinvolge lo spettatore con il consueto sottotesto ironico di una sceneggiatura calibratissima, con al centro un protagonista appassito e situazioni stranianti: un disco inciso con un collega poi suicidatosi, le giornate d’inverno passate a chiedere ospitalità ad amici e conoscenti, un viaggio avventuroso da New York a Chicago per un provino con un importante manager discografico finito con la convinzione che la musica, quella che farà la storia, non ha bisogno delle sue canzoni.

Un’esistenza zoppa, quella di Llewyn Davis, un personaggio che, come tutti gli sconfitti del cinema dei fratelli Coen, è sempre un passo indietro rispetto al momento giusto, mai sincronizzato con le lancette della vita. Nessuna nostalgia revival, nessun tono agiografico, nessuna celebrazione: «Inside Llewyn Davis» non vuole andare da nessuna parte, ma perde tempo in maniera egregia. In un ora e tre quarti di proiezione, infatti, vagabonda seguendo un protagonista (l’ottimo Oscar Isaac, eccellente anche sotto il profilo musicale), che con il suo sguardo opaco e i suoi riflessi lenti allunga il vasto campionario degli antieroi che danno forza e spessore alla filmografia dei Coen. Un perdente di talento che, nel finale del film, lascia il palco del club dove si è appena esibito per pochi dollari a un ragazzo dai capelli ricci e dall’armonica a bocca. «Inside Llewyn Davis» non lo dice esplicitamente, ma tutti, sulla Croisette, l’hanno capito. Si chiama Robert Zimmerman, ma al Greenwich Village, e poi nel mondo intero, passerà alla storia come Bob Dylan.

Gli ultimi fuochi. Cosa succederà da qui al 26 maggio, quando sul 66° Festival di Cannes calerà il sipario? Quale pellicola metterà le mani sulla Palma d’oro e sugli altri prestigiosi premi della kermesse transalpina? Difficile dirlo adesso, all’appello mancano ancora tanti film importanti, («Venus in fur» di Roman Polanski, «Only God forgives» di Nicolas Windin Refn, «Only lovers left alive» di Jim Jarmush, ma soprattutto «La grande bellezza» di Paolo Sorrentino, unico titolo italiano in concorso), le decisioni spetteranno, quest’anno, a Steven Spielberg, presidente di giuria. Un regista che ha incarnato e incarna tuttora, per molti versi, l’emblema del cinema contemporaneo, capace di coniugare forma e contenuto, energia del racconto e forza delle immagini: «Per oltre sei decenni» ha detto Spielberg introducendo la rassegna transalpina, «Cannes è servito da piattaforma per film straordinari da scoprire e presentare al mondo per la prima volta. È un onore e un privilegio, dunque, presiedere la giuria di un festival che dimostra, ancora una volta, che il cinema è il linguaggio del mondo».

Paolo Perrone

 



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