I giorni incredibili

Un’impresa quasi impossibile, quella che il governo di Enrico Letta intende realizzare: far uscire il Paese dalla crisi economica, sociale, civile nella quale si dibatte da diversi anni coniugando rigore finanziario e ripresa produttiva in un mix di riduzione del carico fiscale, giunto ormai a livelli insopportabili, e lotta alla disoccupazione, non solo giovanile, con il ricorso agli ammortizzatori sociali e a provvedimenti che favoriscano nuovi posti di lavoro.

Nello stesso tempo Letta intende ridurre considerevolmente i costi della politica e avviare quelle riforme istituzionali che ridisegnino l’assetto del nostro Paese, a cominciare da una nuova legge elettorale che sostituisca l’attuale porcellum. In questa impresa, sulla quale il premier sta cercando di fare squadra con i suoi ministri (che vengono da storie politiche e anche personali diverse), si colloca la costituzione del governo sostenuto da una amplissima maggioranza che vede insieme il Pd, il Pdl e Scelta civica di Monti, mentre all’opposizione si sono collocati il Movimento 5 stelle di Grillo e Sinistra e libertà di Vendola.

Ma un governo di larghe intese come l’attuale non solo è chiaramente a tempo (e lo stesso Letta si è fissato un termine di 18 mesi, scaduto il quale, se non ci saranno i provvedimenti esposti nel suo discorso al Parlamento sulla fiducia, passerà la mano), ma richiede (ed è una condizione preliminare e quasi pregiudiziale) la fine del “muro contro muro” e della delegittimazione reciproca che da troppo tempo caratterizza i partiti e i movimenti, vecchi e nuovi, come ha dimostrato anche l’ultima campagna elettorale. Il governo serve dunque per favorire un confronto anche serrato tra le forze politiche. Da questo punto di vista quello di Letta è un passaggio necessario. Se ci sarà però consapevolezza e senso di responsabilità da parte di tutta questa ampia maggioranza.

Bisogna però dire che i primi passi che hanno portato alla costituzione del nuovo governo sono contraddittori. Dapprima c’è stata l’implosione del Pd, che ha pagato il mancato successo elettorale (nonostante la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato) con una cannibalizzazione delle sue componenti che hanno bocciato prima la candidatura di Marini e poi quella, ben più significativa, di Romano Prodi alla presidenza della Repubblica, con le conseguenti dimissioni di Bersani da segretario del partito e l’indicazione di Enrico Letta alla guida di un governo con il Pdl che prima, durante e dopo la campagna elettorale, era stata rigorosamente esclusa in nome di un antiberlusconismo morale e politico gridato in tutti i modi.

Una crisi, quella del Pd, che nasce non tanto dalla mancata coesione politico-programmatica delle diverse componenti, cattolico-democratica ed ex comunista, quanto piuttosto da una autoreferenzialità e dalla supponenza di parte del gruppo dirigente che non ha compreso che in un Paese sostanzialmente conservatore e facile alle lusinghe del populismo un partito riformista può avere possibilità di successo solo se riesce a ottenere il consenso di una parte dell’elettorato temperato che non deve essere spaventato dalle “sparate” di un Vendola qualsiasi.

La crisi del Pd rivela infatti un deficit di progettualità che ha bisogno di qualche tempo, e che deve passare per un congresso per così dire fondativo e chiarificatore una volta per tutte. La nomina alla segreteria del partito di Epifani, che viene da una lunga esperienza sindacale e da altrettanto lunga militanza socialista, dovrebbe servire a questo. Ma sarà necessario soprattutto svelenire un clima di personalismi, di dirigenti e di gruppi, che non hanno ancora ben chiaro in testa cosa debba essere il Pd e se questo possa continuare ad essere un partito rissoso dove ogni componente va per suo conto.

Ma il governo Letta deve fare i conti anche con un Pdl che sembra voler comportarsi come un’azionista di maggioranza che ritiene indiscutibili solo le sue proposte. Si tratti dell’Imu da cancellare e restituire a tamburo battente, o si tratti del tema della giustizia reso ancora più incandescente dalla partecipazione dei ministri del Pdl, a cominciare dal vicepresidente Alfano, alla manifestazione di Brescia all’indomani della sentenza della Corte d’appello che ha condannato Berlusconi a 4 anni per la vicenda Mediaset. Una presenza inaccettabile per il premier, che ha sottolineato le difficoltà che sarebbero venute al governo, ottenendo da Alfano l’impegno che i ministri del Pdl non parteciperanno alle manifestazioni del partito in vista delle elezioni amministrative del 26 e 27 maggio che riguarderanno fra l’altro città come Roma, Brescia e altri capoluoghi di provincia.

Ma a complicare le cose ci si è messa la richiesta del Pubblico ministero Ilda Boccassini, che ha chiesto nella requisitoria per il processo Ruby la condanna di Berlusconi a 6 anni con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Lo stesso Cavaliere si è affrettato a dire che questa richiesta di condanna non avrà influenza sul sostegno del Pdl al governo Letta, che può quindi proseguire nell’attività appena iniziata.

Parole rassicuranti, si possono dire. Anche perché i processi in corso contro Berlusconi hanno altri passaggi giudiziari ai quali certamente l’ex presidente del Consiglio ricorrerà, ma non rendono facile il cammino del governo. Anche perché non mancano né nel Pd, né nel Pdl voci autorevoli che vogliono porre fine al tentativo di Letta. Il Popolo delle libertà perché è sempre tentato dal ricorso alle elezioni anticipate (con i sondaggi che darebbero la vittoria al centro-destra). Il Pd perché c’è chi auspica un partito sempre più massimalista che taglierebbe le ambizioni di Renzi e intanto sventola critiche su critiche alle larghe intese proponendo un governo a maggioranza variabile.

I processi e le elezioni amministrative a fine mese potrebbero ammaccare l’esecutivo Letta, chiamato a varare i primi provvedimenti. E c’è sempre il presidente della Repubblica a valutare la situazione. Per ora non sembra pensare a un possibile scioglimento delle Camere. Ma i partiti debbono stare attenti a non tirare troppo la corda.

Antonio Airò

 



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