I danni a Seveso una triste sentenza

Lo ha detto anche papa Francesco, appena salito al soglio di Pietro: «In questo momento noi abbiamo una relazione con il Creato non tanto buona, dobbiamo migliorare». E ha scelto per il suo pontificato il nome del poverello di Assisi, vero ambientalista ante litteram, autore del «Cantico delle creature», inno alla natura e all’armonia che dobbiamo trovare con essa.

E invece niente, come se nulla fosse. L’ambiente, l’ecologia, la tutela del territorio continuano a essere negletti, trascurati dai decisori politici, ignorati dai mass media, calpestati in nome del business da imprenditori e speculatori la cui visione vede ancora la natura in antitesi allo sviluppo, un ostacolo al progredire inarrestabile dell’umanità. Un modo di pensare che affonda le proprie radici nei primordi della rivoluzione industriale, quando forse poteva avere una sua ragion d’essere ormai venuta meno, un’idea di progresso che negli ultimi decenni ha mostrato tutti i suoi limiti, contribuendo non poco all’innescarsi della crisi economica ancora in corso. Nonostante ciò, anche a fronte di disastri conclamati e spesso irreversibili, le ragioni dello sviluppo ad ogni costo continuano a prevalere sulle istanze ecologiste volte a tutelare non solo la natura in sé, ma anche la salute delle persone.

Sono le stesse istituzioni a ribadire questo indirizzo. L’ultimo schiaffo (per ora) è arrivato dalla Corte di cassazione, ma nonostante il clamore che avrebbe dovuto suscitare è passato relativamente sotto silenzio. I giudici di grado supremo, con la sentenza 9711/2013, hanno recentemente ribadito che gli abitanti di Seveso non hanno diritto ad alcun risarcimento danni per la mancata bonifica, da parte della società Icmesa, dell'area contaminata dall’incidente avvenuto il 10 luglio del 1976. Per la precisione, la terza sezione civile della Cassazione ha rigettato il ricorso dei cittadini di Seveso contro una sentenza già emessa in primo grado e confermata dalla Corte d'appello di Milano, che stabiliva la prescrizione del reato contestato.

Il fatto a cui si fa riferimento è il disastro ambientale avvenuto appunto nel 1976, quando il reattore chimico della fabbrica di diserbanti Icmesa di Meda, per una serie di errori, si surriscaldò ben oltre il livello di guardia. Per evitare l’esplosione, vennero aperte le valvole di sicurezza, provocando la fuoriuscita di una nube di diossina che si diffuse su una zona relativamente vasta, contaminando in particolare il territorio del comune di Seveso, con elevato danno ambientale e seri rischi per la salute della popolazione residente. L’esposizione provocò inizialmente irritazione agli occhi, e in seguito qualche centinaio di persone accusò sintomi di una dermatosi nota come cloracne, con formazione di lesioni cutanee e cisti sebacee.

Fortunatamente non ci furono vittime, ma la vegetazione subì un duro colpo (la diossina ha un elevato potere diserbante) e si dovettero abbattere tutti gli animali contaminati. Tuttavia, solo una settimana dopo i cittadini vennero informati della reale portata e della gravità dell’incidente, a seguito del quale vennero avviate imponenti misure di bonifica. Tutto ciò che si trovava all’interno della zona maggiormente colpita, compreso lo strato superficiale di terreno, venne rimosso e stoccato in due vasche di contenimento, successivamente ricoperte da quello che è attualmente il Parco Naturale Bosco delle Querce.

Tuttavia, l’incidente ha lasciato un pesante strascico, causando conseguenze a lungo termine sulla salute delle persone esposte alla contaminazione e addirittura sulla loro discendenza: alcuni studi condotti successivamente, anche a decine di anni di distanza dall’incidente, hanno rilevato che le donne che subirono l’esposizione alla diossina in età puberale hanno maggiori probabilità di generare figli con disfunzioni ormonali rilevanti.

Per questo motivo oltre mille abitanti di Seveso, nell’aprile del 2005, decisero di trascinare in giudizio la società Icmesa, colpevole, secondo i querelanti, di «condotta omissiva» in merito alla bonifica della zona, partendo dalla considerazione che «(…) il carattere permanente del danno conseguente al disastro del 1976 aveva senz'altro perpetuato una situazione lesiva delle loro posizioni soggettive, cagionandogli un indiscutibile danno morale conseguente ai continui controlli sanitari cui erano obbligati a sottoporsi».

Il Tribunale di Monza respinse in primo grado tale istanza, per «intervenuta prescrizione del diritto fatto valere», escludendo che il ricorso presentato contro la mancata bonifica fosse «autonomo e diverso» rispetto a quello già risarcito, relativo ai danni provocati dall’incidente nel 1976. Sentenza ribadita dalla Corte d'appello di Milano, che ritenne infondata la tesi secondo cui la prescrizione del diritto andava computata a partire dal 2003, anno in cui era stata pubblicata una «analisi di rischio» che aveva evidenziato e portato a conoscenza dei residenti gli effetti nocivi delle omissioni della Società per la bonifica. In questi ultimi giorni è arrivata la conferma definitiva della Cassazione, che ha rigettato i ricorsi delle parti lese argomentando che «vertendosi in tema di illecito istantaneo con effetti permanenti, la condotta lesiva si esauriva in un fatto destinato ad esaurirsi in una dimensione unitaria di concreta realizzazione, a prescindere dalla eventuale diacronia dei relativi effetti».

La sintesi del linguaggio criptico della sentenza è che la prescrizione del diritto al risarcimento del danno «non poteva che iniziare a decorrere dal momento del fatto» e le «lamentate lesioni dell'integrità psichica di un danno morale da patema d'animo non costituivano, pertanto, manifestazione di una lesione nuova ed autonoma rispetto a quella manifestatasi con l'esaurimento dell'azione del responsabile, bensì un mero sviluppo e un aggravamento del danno già insorto». Cioè, tradotto, il risarcimento che ti spettava te l’abbiamo già dato nel remoto 1976, se continui a stare male perché non abbiamo ripulito abbastanza bene è un problema tuo.

Per affinità, viene in mente il confronto con l’Ilva di Taranto, che da anni inquina la città e avvelena i suoi abitanti, e dove il diritto al lavoro viene strumentalmente contrapposto a quello alla salute. Chissà se fra qualche tempo, magari dopo che la fabbrica sarà stata dismessa o trasferita in qualche Paese dove la manodopera ha un minor costo, assisteremo a un processo analogo. E chissà se la Cassazione dirà anche ai tarantini che dovevano svegliarsi prima, a chiedere i danni ai Riva, gli imprenditori padroni dell’acciaieria, che non hanno mai voluto decurtare i propri utili per mettere la fabbrica a norma e abbattere le emissioni inquinanti. Gli stessi Riva che hanno preferito, nel frattempo, investire liquidità per entrare nella cordata che ha rilevato l’Alitalia, compagnia aerea di bandiera, dopo aver girato tutti i debiti alle casse statali (cioè facendoli pagare da noi) e che ora è nuovamente in deficit.

La riprova che almeno una parte della classe imprenditoriale alla quale affidiamo il nostro sviluppo è inadeguata, incapace di accollarsi responsabilità e rischio d’impresa, ma sempre pronta ad attaccarsi alle mammelle pubbliche per ottenere sussidi e rimpinguare gli utili. Utili di pochi che, in ossequio alle teorie neoliberiste, non vengono mai messi in discussione, mentre i diritti di tutti, come quelli al lavoro e alla salute, vengono posti in contrapposizione. Finché non invertiremo questo paradigma, comprendendo che ambiente, salute e lavoro stanno dalla stessa parte e sono contrapposti solo agli interessi speculativi, difficilmente troveremo un’uscita alla crisi attuale, ma in compenso rischieremo molte altre Seveso.

Riccardo Graziano

 



SIR | Avvenire.it | FISC

PRELUM Srl - P.I. 08056990016