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Andreotti le verità scomodeDavanti alla morte di Giulio Andreotti non è parso vero a molti dei testimoni della sua vita politica di poter tentare di condensare quella storia in una sola parola: «potere». Con tutto quello che ne segue, a cominciare da una verità per loro indiscutibile: il potere vero non rispetta norme civili o morali, laiche o religiose, e usa a sua volta in misura assoluta tutti i poteri intermedi sottostanti, dalla giustizia alle armi, dal fisco all’istruzione, e così via. E così si sarebbe comportato sempre Giulio Andreotti, non per nulla sette volte presidente del Consiglio e ventisei volte ministro in questi dicasteri: gli Esteri, gli Interni, la Difesa, le Finanze, le Partecipazioni statali, l’Industria, il Tesoro, il Bilancio, i Beni culturali, le Politiche comunitarie. Cominciò alla Difesa nel 1959, quando aveva quarant’anni (era nato a Roma il 14 gennaio del 1919) e ci rimase fino al 1966, sotto quattro diversi primi ministri: Segni, Tambroni, Fanfani e Leone. Ma quando a quest’ultimo succedette Aldo Moro, nel febbraio del 1966, Andreotti passò all’Industria. Troviamo esemplare questo elenco di premier in cui figurano personalità politiche diversissime fra loro ma del medesimo partito, la Democrazia cristiana, perché significa l’essenziale della carriera politica di Giulio Andreotti: la sua innata capacità di accordarsi con tutti, di mediare, di servire innanzitutto lo Stato di là da ogni ideologia, strategia, simpatia personale, o seguito di “fedeli” in una delle tante “correnti” della storia democristiana. La sua è sempre stata piccola, composta più che altro da suoi amici personali o estimatori, ma piuttosto influente nelle decisioni interne al partito (anche se la Dc non elesse mai Andreotti a suo segretario) e nei rapporti con le altre forze politiche, di volta in volta necessarie per raggiungere determinati scopi. Compreso il nemico storico nel dopoguerra, il Pci. In un’intervista nei primi anni Novanta, dopo che era uscito per sempre dal potere governativo, a una nostra domanda su quale metro avesse sempre misurato i suoi rapporti con gli altri, egli rispose: «Io non ho mai picchiato, nemmeno quando ero giovane. Non ho nemmeno mai alzato la voce. Mi sforzo di convincere le persone facendo credito al tempo-galantuomo. Non concependo altro modo di fare politica detesto ogni forma-palese o occulta, materiale o morale- di violenza». Questa regola è stata la caratteristica fondamentale di tutta la sua esistenza pubblica e privata. A proposito di quest’ultima, è doveroso riconoscergliene appunto l’assoluta discrezione: sposato, quattro figli mai finiti nelle cronache, sempre la medesima abitazione romana non di lusso in corso Vittorio Emanuele II; gli ultimi anni vissuti in una lunga sofferenza, con la respirazione aiutata da tre bombole a ossigeno; i funerali in forma privata, senza manifestazioni pubbliche. Di vanagloria, nemmeno l’ombra. A un’altra nostra domanda sui suoi rapporti con De Gasperi, da cui è dipesa fin dall’inizio la sua carriera, rispose: «Io non ho mai riconosciuto né in me né in altri la qualità di erede di De Gasperi. Un uomo eccezionale come egli fu non ha eredi possibili. Che egli mi avesse voluto accanto a sé per molti anni (quando io ero timoroso di accettare il posto di suo segretario nel 1947, che tenni fino alla caduta del governo De Gasperi nel 1953, fu monsignor Montini ad insistere… perché lui insistesse) è un fatto di cronaca». La scelta di De Gasperi aveva avuto una sua precisa, anche se forse poco nota, ragione non «di cronaca», ma di «storia patria». Nel luglio del 1943, nei giorni che precedettero la caduta di Mussolini, un gruppo di notabili cattolici esperti di politica economica e sociale si incontrò nel monastero di Camaldoli, in gran segreto, per studiare il programma di un futuro governo non più fascista, ma democratico e aperto alla Dottrina sociale della Chiesa; dal raduno uscì un progetto che fu chiamato «il codice di Camaldoli». Alla sua compilazione definiva nei mesi successivi fu chiamato a partecipare anche Giulio Andreotti, allora ventiquattrenne laureato romano che negli anni della sua presidenza degli Universitari cattolici aveva già manifestato le sue idee in proposito. I commenti di questi giorni insistono soprattutto su due temi: la sua storia giudiziaria e la sua funzione immaginaria di «cardinale esterno», secondo la citatissima definizione espressa dallo storico Andrea Riccardi. Per quanto riguarda la prima, va detto che egli cominciò a preoccuparsene il 27 marzo del 1993, quando Giovanni Spadolini, il presidente del Senato di cui egli era stato nominato membro “a vita” dal presidente Cossiga, gli disse, «emozionatissimo», di avere ricevuto dalla Procura della Repubblica di Roma la richiesta di autorizzazione a procedere nei suoi confronti per un presunto reato di complicità con la mafia siciliana. Il relativo processo di primo grado si concluse con una sentenza di ben quattromila pagine con cui il 23 ottobre del 1999 la quinta sezione penale del Tribunale di Palermo stabilì che «alla stregua delle considerazioni che precedono è emerso, in esito alla complessa istruzione dibattimentale svolta e alla critica disamina di tutti gli elementi acquisiti, un quadro probatorio caratterizzato complessivamente da contraddittorietà, insufficienza e, in alcuni casi, mancanza di prove in ordine ai fatti di reato addebitati all’imputato. Ne consegue che il sen .Giulio Andreotti deve essere assolto dalle imputazioni ascrittegli ai sensi dell’art 530 comma 2° c.p.p. perché il fatto non sussiste». Poi ci furono il processo di appello, finito a metà con un’assoluzione e metà con una prescrizione per fatti avvenuti fino al 1980, confermate in Cassazione; e il parallelo processo a Perugia per l’assassinio del giornalista Pecorelli: assoluzione in primo grado, condanna a 24 anni per Andreotti in appello, assoluzione in Cassazione. Una doppia vicenda giudiziaria originata in base a dichiarazioni di mafiosi “pentiti” di vario grado, generalmente di scarsa attendibilità, su reati di tipo diverso che riassumevano comunque, come sono stati trasferiti in decine di libri, réportage giornalistici, trasmissioni televisive, la storia di questo Paese dominato nei decenni della Repubblica da violenza malavitosa, corruzione di politici e pubblici funzionari, intrighi politici e militari da colpo di Stato, terrorismo brigatista rosso e nero e così via. In tutto questo si é immancabilmente vista la mano di Andreotti, fino al culmine tragico del sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, in cui la parte del “divo Giulio” è stata spesso rappresentata come quella di chi, investito del potere di primo ministro, si è radicalmente opposto alla trattativa con le Brigate rosse, a tutela dei diritti e doveri dello Stato anche a rischio della morte violenta delle vittime innocenti. Come si legge anche nelle drammaticissime lettere di Moro dalla prigionia ai suoi parenti, agli amici, ai colleghi di partito. Infine, si è letto molto in questi giorni sulla presunta pressoché totale dipendenza “romana” di Andreotti dalla gerarchia ecclesiastica, da Pio XII a papa Wojtyla, passando per il sostituto alla segreteria di Stato Montini e al cardinale Casaroli, di cui condivise la diplomazia aperta all’Unione sovietica al tempo di Gorbaciov; dopo avere spesso assecondato la tendenza della Chiesa cattolica a favorire la pace in Medio Oriente, al punto di prendersi qualche rimprovero dagli Stati Uniti per la troppa amicizia verso i palestinesi. In conclusione, così come abbiamo scritto all’inizio che la vita politica di Andreotti è tuttora configurata nell’immagine del «potere», va aggiunta ora un’altra parola, usatissima: «misteri». Un potere dunque complessivamente misterioso, che sarebbe finito per sempre, almeno in Italia, con la sua morte. Siamo convinti che non sia stato proprio così, e il giudizio non può essere affidato soltanto alla Storia, come ha suggerito anche il presidente Napolitano. Nell’intervista ultima che abbiamo già citato, parlando delle operazioni diplomatiche per mettere fine in campo comunitario europeo alle questioni parlamentari aperte anche per l’Italia dalla guerra civile in Jugoslavia, ci disse: «Non è onesto dire che si è tirato a campare, né che io portassi interessi personali nell’impedire che ancora una volta si forzasse la Costituzione, che vuole le elezioni politiche ogni cinque anni». E adesso, riposi davvero in pace: non tocca più a noi giudicarlo. Beppe Del Colle
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