Il governo fra realtà e politica

Da un lato c’è la realtà. Dall’altro lato c’è la politica. Chi ama la libertà, e la democrazia che ne è l’elemento fondamentale, non accetta che la distinzione diventi contrapposizione. La realtà di oggi in Italia ci dice molto ruvidamente che viviamo anni di crisi economico-sociale che condividiamo con tutto il mondo cosiddetto “avanzato” fino a una decina di anni fa, e questa condizione ha effetti su tutti, naturalmente molto diversi: su chi governa e chi resta anonimo soggetto della comunità nazionale, i ricchi e i poveri, il Nord e il Sud, e così via.

La politica ci dice, sempre oggi, che una realtà di questo genere non può prevaricare fino all’estremo sul diritto fondamentale di ogni democrazia: che sulle soluzioni dei problemi possano e debbano esserci opinioni diverse, magari contrapposte, e anzi in lotta fra loro per decenni, come è il caso italiano dal 1945 in poi.

Il governo Letta, nato due mesi dopo le elezioni per il rinnovo del Parlamento, ha esattamente questa missione: di contemperare la realtà e la politica. Dirlo è facile, farlo è difficilissimo, forse impossibile. Il premier nel suo discorso per la richiesta di fiducia alla Camera ha prospettato un programma in cui è lecito riconoscere la presa d’atto di una situazione che lo obbliga a tentare appunto di contemperare la realtà e la politica, rispettando insieme sia la «verità» dei fatti (come l’ha chiamata Letta) sia la dignità dei partiti che compongono, per ora, la sua ampia maggioranza in Parlamento.

Il commento prevalente al discorso di Letta è stato che ne sia uscito soddisfatto solo il Popolo della libertà, e in particolare il suo leader Berlusconi, soprattutto sul piano fiscale, tra Imu rinviata e Iva congelata; e che anche il M5S, per quanto non lo abbia dichiarato formalmente, abbia apprezzato i suoi progetti di ridimensionamento del potere e del finanziamento pubblico dei partiti. Persino la Lega, pur dicendosi contrariata per l’ingresso al governo di una donna di colore (cosa straordinariamente “cristiana”) ha deciso di astenersi dal voto di fiducia.

Nel Partito democratico, che pure ha la maggioranza dei ministri (nove su ventuno, contro i cinque del Pdl, i due della Scelta civica e i quattro “tecnici”) l’aria che tira è diversa. Solo un paio di suoi deputati si sono rifiutati di votare la fiducia, ma la settimana prossima si riunisce l’Assemblea generale in cui il malcontento potrebbe manifestarsi senza riserve, in attesa che fra qualche mese il congresso nazionale ridisegni il gruppo dirigente e soprattutto giudichi i risultati del governo (ammesso che non sia andato prima in crisi).

Anche qui, realtà e politica si confrontano: la prima riconosce che manca al Pd un vero e praticabile programma di uscita dalla crisi, così come è privo da vent’anni di una ideologia confortata storicamente, dopo la fine del “comunismo realizzato”; la seconda constata come esistono nel partito correnti che possono arrivare a scandali come il rifiuto di cento voti dei suoi “grandi elettori” alla candidatura di Romano Prodi per il Quirinale.

Per venire al concreto, Enrico Letta ha fin qui dimostrato come sia possibile far convivere realtà e politica, mettendo insieme il «governo di cambiamento» di cui ha parlato invano per giorni e giorni Pier Luigi Bersani. Una squadra molto più giovane di quelle del passato, senza nessun “big” dei partiti interessati (tranne Alfano, segretario ma non leader effettivo del Pdl) e sette donne, delle quali una, la congolese Cécile Kyenge, da vent’anni in Italia, dove si è laureata in medicina ed esercita quella professione. Con un programma, quello presentato per la fiducia, in cui anche i punti-chiave delle intenzioni pidielline, come l’Imu sulla prima casa e l’aumento dilazionato dell’Iva, non figurano nei termini in cui Berlusconi le presenta nella sua continua campagna elettorale (rispettivamente: restituzione di quella pagata e annullamento definitivo), ma come si possano discutere e realizzare sulla base dei suggerimenti offerti dai dieci “saggi” nominati da Napolitano per aiutare la nascita del nuovo governo. Così dicasi per il “reddito minimo” prospettato dal M5S per le famiglie più povere, sugli esempi di quelli già realizzati in altri Paesi europei, come l’Olanda e la Francia, senza troppe conseguenze sul debito pubblico e il deficit dello Stato.

Nello stesso tempo, Letta ha riconosciuto che la questione prioritaria resta comunque il lavoro, come sostiene il Pd, attraverso una riforma ben studiata delle norme già a loro modo “riformiste” proposte dal ministro dei “tecnici” Elsa Fornero, con equilibrati tagli sia alla spesa pubblica sia alle imposte pagate dalle imprese. La sorpresa è venuta quando il premier ha reso noto che il primo provvedimento del governo per ridurre le spese della politica sarà l’annullamento dello stipendio dei parlamentari diventati ministri. Infine, Letta ha registrato correttamente che il governo dei tecnici, da cui è nata la Scelta civica ispirata da Mario Monti, ha portato il Paese fuori dall’emergenza finanziaria e ne ha aumentato la stima internazionale, consentendogli di aprire la sua attività di governo con il viaggio-lampo a Berlino, Bruxelles a Parigi per tentare di ridurre anche per l’Italia il “rigore” chiesto dalla comunità europea ai singoli Stati.

Che cosa si può dedurre da tutto questo, e dall’impegno di accertare, alla fine dei prossimi diciotto mesi di attività programmata, se il governo, grazie all’aiuto della sua maggioranza, sarà riuscito a realizzare anche le riforme istituzionali e parlamentari (compresa quella della legge elettorale) di cui tutti parlano da almeno vent’anni, senza che nessuno sia mai riuscito a concretizzarle?

La risposta è semplice: senza ridurla alla constatazione di un leghista amareggiato («mai avrei immaginato di morire democristiano») vale la pena di constatare che in Enrico Letta sopravvive apertamente una misura cattolico democratica della politica orientata sulla realtà. La politica dei “contratti agrari”, della scuola media unica, dell’edilizia popolare, della nazionalizzazione dell’energia elettrica, del fruttuoso connubio industriale fra pubblico e privato, della denuncia dei redditi, del servizio sanitario nazionale e così via, che da De Gasperi in poi, attraverso i Segni, i Fanfani, i Vanoni, fino a Prodi, hanno portato l’Italia fra i primi sei o sette Stati del mondo. Una politica, come si tenta di spiegare nella seconda pagina di questo numero, per una società “da cristiani”.

Per ora, non si può concludere che con un augurio: che l’esperienza della “larga intesa” iniziata da Enrico Letta fra partiti storicamente avversi riesca a portare il Paese fuori dalla crisi con il minor danno possibile per tutti, naturalmente a partire dai settori più poveri della comunità nazionale, e dai giovani senza lavoro e dagli anziani che rischiano le pensioni. Un augurio politicamente sincero e senza pregiudizi ideologici (e tantomeno religiosi, con il Vangelo non si può scherzare, almeno da parte di chi ci crede), che non può ignorare fino a che punto la realtà apra le porte a tragedie come quella di domenica scorsa in piazza Colonna a Roma, con quel coraggioso carabiniere colpito quasi a morte da un uomo disperato, che nessuno ha il diritto di considerare un esempio estremo di lotta politica. L’Italia ha già conosciuto la violenza politica del terrorismo, ma l’ha sconfitta: nessuno può pensare che sia naturale riproporla.

Luigi Preiti, lo sparatore di Palazzo Chigi, piange e si chiede, in carcere: «Che cosa ho fatto? Non lo so spiegare». La Giustizia farà la sua parte, nei suoi confronti: come ha scritto Fiorenza Sarzanini sul «Corriere della sera», ci sono alcuni «indizi chiave che fanno comprendere come il caso non sia affatto chiuso». Per ora, importa che il brigadiere Giuseppe Giangrande, dolorosamente vedovo da tre mesi, risorga dal brivido di morte che lo ha portato al Policlinico Umberto I in fin di vita, e torni ad abbracciare presto la coraggiosissima figlia Martina.

Beppe Del Colle



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