Verso un'Italia nuova?

Colpiva, nei titoli sui quotidiani di martedì mattina, l’aggettivo «storico» per il discorso pronunciato il giorno prima da Giorgio Napolitano a Montecitorio davanti a senatori e deputati in seduta congiunta, in occasione del suo secondo giuramento come presidente della Repubblica.

Colpiva, quel titolo, perché la storia guarda sempre al passato, naturalmente, e ne rappresenta un compendio; mentre quel discorso si riferiva a un presente tuttora in corso, e ovviamente a un futuro che agli occhi di molti cittadini (prima che a quelli dei parlamentari) appare come un incubo.

Ma non era sbagliato, quel titolo, almeno su un punto: esso apriva una speranza. La speranza, appunto, che con le parole da lui pronunciate in quaranta minuti, fra momenti di commozione, arresti di lettura del testo e parentesi di stretta attualità piene di rimproveri rivolti a quelli stessi che lo stavano ascoltando e di tanto in tanto lo applaudivano (quasi tutti, meno i grillini…) Napolitano abbia profetizzato un futuro di ragionevolezza e di rinnovamento della democrazia, lasciandone fermi i principi sostanziali, di libertà e di recupero e rispetto di tutti i valori che dal 1° gennaio 1948, giorno della sua entrata in vigore, la Costituzione repubblicana assicura a tutti i cittadini.

Sarebbe davvero «storico», quel discorso, se fra qualche tempo Napolitano potrà lasciare il posto che occupa dal 2006 al Quirinale prima della nuova, normale scadenza settennale, dopo avere assicurato all’Italia un governo in grado di risollevarla dalla crisi economico-finanziaria, ridare lavoro sicuro a milioni di disoccupati e precari, rinnovare il welfare senza ledere i diritti di quanti ne hanno avuto finora i benefici, ma escludendone i costi eccessivi, le ruberie, le ingiustizie e gli sprechi.

Quali possono essere le condizioni perché tutto questo si avveri lo abbiamo appreso dal 25 febbraio in poi, con il risultato delle elezioni politiche. Non era difficile capirlo, guardando un fenomeno chiaro a tutti: l’esplosione elettorale del Movimento 5stelle di Beppe Grillo aveva messo fine al “bipolarismo scorretto”, in vigore da un ventennio sia pure fra divisioni, scissioni, scomuniche, fallimenti di maggioranze generati al loro stesso interno. Era nato un “tripolarismo”, in cui nel “grillismo” era riassunto quello che non si poteva più chiamare “antipolitica” in senso stretto, come ha riconosciuto lo stesso Napolitano nel suo discorso, attribuendo al M5S un ruolo seriamente democratico, purché svolto in Parlamento e non più soltanto nel web e nelle piazze urlanti davanti al comico genovese.

Ora il vero problema non è però il M5S (di cui una prima frana elettorale, con la perdita dell’8 per cento dei voti rispetto alle recenti politiche, è stata segnalata nelle regionali di domenica scorsa nel Friuli-Venezia Giulia, vinte per un soffio con il 39,36 dalla candidata del Pd su quello del Pdl, ma caratterizzate dal crollo della frequenza alle urne al 50 per cento). Il problema sono i due partiti maggiori del “tripolatrismo”: il Pd e il Pdl. In questi stessi giorni in bilico fra due tradizionali festività civili, il 25 aprile e il 1° maggio, i democratici vivono il dramma della loro direzione, dopo le dimissioni del presidente Rosy Bindi e del segretario Pierluigi Bersani, provocate dagli sbalorditivi e inattesi insuccessi della candidatura di Franco Marini e soprattutto quella di Romano Prodi alla presidenza della Repubblica.

I fatti hanno rivelato all’opinione pubblica la realtà di quel partito, un amalgama mal riuscito fra derivazioni politiche e programmatiche diverse, al culmine di una vicenda (quella sì davvero «storica») che aveva visto i suoi due maggiori gruppi di provenienza, i comunisti e i democristiani (che si erano aspramente contesi i primi cinquant’anni di democrazia repubblicana e di potere reale) uniti finalmente, ma illusoriamente, in nome di una ispirazione comune, la giustizia sociale e il progresso civile.

Non possiamo, nel momento in cui scriviamo, anticipare nulla di quello che sta per accadere, e mentre si riunisce la direzione del Pd per decidere se e come accettare le proposte del Capo dello Stato per la costituzione del nuovo governo. Il Pd è uscito dalla rielezione di Napolitano con le ossa rotte, in uno scheletro di cui press’a poco la metà accetta le “larghe intese” con il Pdl, la Lega e la Scelta civica di Monti, e l’altra metà le rifiuta, guardando piuttosto alla doppia sinistra uscita dalle urne: il M5S “rivoluzionario” e il Sel di Nicky Vendola “rifondatore” del comunismo.

La vittima di questo scontro è naturalmente Bersani, che nel giro di pochi giorni è passato dalla intenzione di fare un governo con Grillo (che si è dichiarato subito del tutto contrario) alla rassegnazione a tentare la “larga intesa” con Berlusconi, mentre il suo rivale nelle primarie di dicembre, Matteo Renzi, si dichiarava pronto al dialogo con Berlusconi, ma nello stesso tempo passava da “rottamatore” a “rifondatore” del Pd, in ossequio al giovanilismo così caro a Grillo.

Un’altra vittima è stato Romano Prodi, al quale sono mancati ben 101 voti dei quasi 500 grandi elettori del Pd, senza che nessuno di loro si fosse apertamente manifestato contro la sua candidatura al Quirinale. Anzi, l’avevano applaudita pubblicamente. I giornali sono pieni di statistiche sulle addirittura dieci “correnti” interne al partito, comprese quelle dei “prodiani” e degli “antoprodiani” appartenenti alle file stesse degli ex democristiani e “popolari”, da cui erano venuti, insieme ai “bertinottiani”, i “franchi tiratori” che fecero cadere i suoi due governi.

Era inimmaginabile che queste divisioni fra cattolici all’interno del Pd arrivassero a quel punto, contro un personaggio al quale non si potrà mai rimproverare di non essere stato un fedele dell’etica e della dottrina sociale della Chiesa. E invece è proprio capitato, non si sa perché, con qualche vergogna per qualcuno.

Se tutto questo riguarda il Pd, nel quale il futuro appare condizionato da quello che capiterà nei prossimi giorni a proposito del nuovo governo di iniziativa quirinalizia, perché diciamo che la crisi colpisce anche il Pdl? In tv si è visto a lungo Berlusconi applaudire il discorso di Napolitano sia battendo le mani in aula, sia parlandone con i giornalisti e gli amici parlamentari dopo la seduta; e molti hanno affermato che la sua soddisfazione gli veniva da una indubbia vittoria. Ma quanto durerà questa vittoria? E quanto servirà al Paese e al suo stesso partito?

Il Cavaliere é nel pieno della vicenda giudiziaria che lo distingue da anni nel panorama politico nazionale e internazionale, e rischia condanne o proscioglimenti per decorrenza di termini dei reati, e comunque nei programmi del Pdl è assolutamente al primo posto (insieme all’abolizione dell’Imu sulla prima casa) una riforma della Giustizia a lui personalmente molto favorevole, il che sembra escludere che il Pd possa accettarla in un una mediazione del Quirinale volta a formare un governo “di larghe intese” con il Pdl.

Berlusconi continua a dire che o si fa un governo del genere, subito, o si va a nuove elezioni. Ma le nuove elezioni non le vogliono in questo momento di estrema confusione i democratici e forse nemmeno i “grillini”, specie dopo il sorprendente risultato in Friuli-Venezia Giulia. Ma una ulteriore domanda si impone, a proposito del Pdl: se il Cavaliere dovesse rinunciare, per ragioni personali, a presiederlo e a dirigerlo, che ne sarebbe del suo elettorato, anche cattolico, così fervido da quasi vent’anni nel sostenerlo qualunque cosa facesse, nel bene e nel male?

Nel programma esposto lunedì in Parlamento dal Presidente Napolitano figurano alcune riforme proposte dai dieci “saggi” da lui nominati le scorse settimane, fra cui quella della legge elettorale per cancellare l’obbrobrio dell’enorme premio di maggioranza assicurato dal porcellum; nonché misure di carattere economico per rilanciare la crescita giudicata essenziale per il rilancio necessario al Paese. Staremo a vedere che cosa ne sarà di tante buone intenzioni.

Ma soprattutto che cosa ne sarà dei rimproveri, anche aspri, del rinnovato Capo dello Stato a una classe dirigente dei partiti in cui, secondo le sue parole, «hanno finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi. Ecco che cosa ha condannato alla sterilità o ad esiti minimalistici i confronti tra le forze politiche e i dibattiti in Parlamento». In più , non sono mancate critiche eccessive da parte della cosiddetta ”antipolitica”, ma dicendo questo Napolitano non intendeva indurre «ad alcuna autoindulgenza, non dico solo i corresponsabili del diffondersi della corruzione nelle diverse sfere della politica e dell’amministrazione, ma nemmeno i responsabili di tanti nulla di fatto nel campo delle riforme».

Dopo gli applausi di rito, il nuovo Parlamento è pronto a disfarsi di abitudini come queste, e soprattutto quanto potrà durare? Dipenderà anche da questo se il discorso di Napolitano figurerà a buon diritto, nei libri del futuro, come davvero «storico».

Beppe Del Colle



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