La libertà di essere se stessi

È stato Kafka a dire che un libro è poeticamente irresistibile quando colpisce come un pugno, scuotendo il lettore dal suo letargo di convenzioni.

Questo parametro di giudizio, spiegava Magris in un articolo del 1998, vale per racconti «sgradevoli» come «Cime tempestose» di Emily Bronte, che obbliga «a rifare lo stesso cammino dello scrittore e a impantanarsi nell'ansia e nel fango di quel cammino» o «Auto da fe'» di Canetti, che mette a faccia a faccia col delirio del mondo e del pensiero senza mai dire che «la realtà è stravolta e deforme». Lo stesso vale anche per i grandi libri di Sterne o Nievo, che sanno dire «l'ombre e gli abissi conservando pienamente amabilità e seduzione».

La prima impressione che si ha dopo avere letto il nuovo romanzo di Paola Mastrocola, «Non so niente di te» (Einaudi, pp. 334, euro 18,50), registra proprio questo tipo di reazione, quella di un pugile così stordito dai pugni da non sapere se ridere o piangere, accendere o spegnere una speranza, ma soprattutto non essere più certo della propria identità. Viene da chiedersi, allora, quali sono gli ingredienti di questo romanzo capace di suscitare reazioni che, in ogni caso, rifiutano le mezze misure, forse proprio per il rischio di riconoscersi nei tanti personaggi che vorticano intorno al protagonista in fuga da quel turbinio.

Sarà lo stile, alto, intriso di tragica ironia o il contenuto, che sa plasmarsi sulle aspettative dei genitori, sull’autonomia dei figli, sull’intreccio di parentele e di amicizie, sugli amori che offuscano la chiarezza, su quelli perduti per un disguido, sulle carriere costruite a tavolino, sulla competizione accademica che le determina, su un’idea di tempo irrecuperabile continuamente sottratto, sull’utopia di vivere restando semplicemente se stessi? O sarà la storia del mondo rappresentata al filtro di un giovane e geniale economista che all’improvviso vede lo scenario della crisi, i privilegi, lo stato sociale, i diritti, le tasse, il Pil, lo spread, i giovani senza futuro, la crescita smisurata che nessuno riesce a frenare perché non si accorge che il traguardo è ormai alle sue spalle, superato, rendendo inutile e insana la volontà di continuare la corsa? O sarà la scoperta che potrebbe anche esistere un mondo in cui tutti possano vivere bene «nonostante una crescita zero»?

Lo so, sembra impossibile che tutto questo possa convivere nella storia di Paola Mastrocola, che racconta la vicenda di Fil (diminutivo familiare di Filippo), un giovane e promettente economista laureato alla Bocconi a pieni voti, che tutti credevano impegnato per un dottorato in uno dei templi accademici d’oltreoceano e che, invece, è rimasto annidato nella tenuta di un Duca inglese con il compito di governare il suo gregge. Aveva custodito questo segreto per tre anni, facendo credere alla famiglia alto borghese di avere preso un master a Oxford, di trovarsi a un passo dal Ph.D. a Stanford e c’era riuscito esercitando semplicemente l’arte dello sdoppiamento. Tutto quello che i genitori volevano facesse, per poter impostare una sua futura carriera, lo faceva dietro compenso l’amico Jeremy, con il solo obbligo di riferire a Fil, giorno per giorno, i dettagli di quell’esperienza, che dovevano giungere puntualmente alla famiglia ignara e orgogliosa dei progressi e degli onori che avrebbero coronato i loro sogni.

In fondo si trattava solo di uno swap, di uno scambio di vita, dove ognuno faceva quella che sentiva più sua, impossibile senza un baratto di identità: uno poteva avere i fondi necessari per studiare in America e l’altro poteva studiare en plain air senza essere continuamente distolto dalla sua concentrazione. Nonostante questo intrigo, apparentemente cialtronesco, il protagonista è un figlio amorevole, che vuole proteggere i genitori dalle delusioni, ma non riesce più a tollerare i progetti preconfezionati per la sua esistenza. Ed è anche un genio dell’economia, che non ha mai smesso di studiare, con la sola differenza che ora può seguire un corso di pensieri e ricerche a suo piacimento e lo fa appoggiato a uno dei platani della sontuosa tenuta che lo ospita, sotto un cielo senza confini e una casa come biblioteca, piccola e bianca, col «tetto di terra sul quale cresceva l’erba».

Per governare un gregge di pecore bastano due cani e l’esperienza di un vecchio pastore cieco e, dunque, può studiare senza alcuna distrazione, dilatando un tempo tutto suo, perfezionando una teoria sull’algoritmo che condivide con l’amico, in modo che potesse realmente avere il successo accademico da comunicare alla famiglia di Fil, che comprendeva l’importanza della carriera ma non quella del pascolare.

Che cosa era accaduto per spingerlo a dire bugie così terrificanti? Niente di speciale, forse solo una vocazione, quella del piccolo robot nel racconto di Asimov che mentiva per «rendere felici gli esseri umani». Oppure la folgorante sensazione e ossessione di essere su un tapis roulant, dove tanti come lui, che non hanno il tempo di correre lungo il Tamigi, si trovano insieme, come topi impegnati a fare una vita di corsa, sempre in gara, senza pensare. «C’è quell’espressione inglese, rat race, ecco, proprio quello». Se si scende da quel tappeto all’improvviso «vedrete gli altri correre come dei pazzi, e voi non sarete più dei loro. Non sarete più niente».

Il protagonista di Paola Mastrocola decide di scendere e per non disturbare nessuno sparisce, chiude gli occhi come quando era piccolo, pensando di diventare invisibile. Lo fa per riprendersi il tempo, per poterlo utilizzare seguendo il ritmo del suo passo, per studiare e, forse, per scoprire una nuova teoria economica che potrebbe salvare il mondo: l’idea di un tetto, «l’immagine rilassante e utopicamente equa di un cielo economico? Che abiti stabilmente sopra di noi e ci faccia un po’ da tetto, protezione e limite allo stesso tempo, sotto il quale provare a vivere, e a progredire in modo nuovo».

Così, ai Campi Elisi di un campus, «aerei, soleggiati, verdazzurri», dove tuttavia il tempo è scandito da un’agenda di lezioni, prove, esposizioni, ricerche, preferisce il bosco di platani, l’aria e il cielo, le nuvole, le ore lunghe, il rumore di una matita sulla carta, l’odore di terra e le pecore che pascolano nella conca verde. Poi accade un fatto grottesco, imbarazzante, imprevisto, che nel romanzo è rappresentato in apertura. Da tempo aveva promesso al suo alter ego Jeremy di tenere una conferenza sulle teorie economiche che avrebbero potuto salvare il mondo nell’aula magna del più prestigioso college di Oxford. Per uno di quei disguidi del possibile e la distanza ormai siderale dalle agende di appuntamenti, dimentica il giorno e l’ora. Se ne ricorda mentre sta pascolando le pecore del Duca e per il suo paradossale senso del dovere non vuole assumersi la responsabilità di abbandonarle. Così decide di avviarsi con tutto il gregge verso il Balliol College, mescolando centinaia di pecore Suffolk al pubblico stupefatto («Stupefatti», poesie del 1999). La notizia si propagò in un attimo, raggiunse la famiglia di Fil e da questo punto comincia la storia a ritroso di Paola Mastrocola, che adotta gli affilati strumenti del narratore di razza per intrattenere il suo lettore, ma gli offre anche la possibilità di drizzare «gli occhi al vero», direbbe Dante, quello che da anni si nasconde sotto i suoi strani animali parlanti.

Si farebbe un torto all’autore nel riassumere oltre una storia che ne contiene altre, come una matrioska, soprattutto per lo stile «poeticamente irresistibile» che intreccia senza mai sovrapporli diversi generi narrativi (il giallo, il surreale, il fiabesco), senza tuttavia rinunciare al realismo di temi scientifici, filosofici, economici. Per un solo esempio vengono in mente gli studi di Carl Schmitt sugli aspetti ontologici del diritto, sulla storia del mondo e la globalizzazione, che restituiscono alla parola greca Nomos (oggi tradotta come “legge” tout court) la «forza e grandezza primitiva» del significato arcaico, ovvero quella legge che identificava la terra da assegnare al pastore, l’istituzione di confini e, infine, il coltivare e pascolare. L’intento del giurista tedesco non è quello di «far rivivere di nuova vita artificiale miti sepolti», ma di spiegare l’epoca del mercato globale che, in qualche modo, ci priva del Nomos, della terra, della possibilità del diritto a un proprio mondo.

Il percorso di Fil, allora, non è il capriccio di un ragazzo viziato, ma un’idea di Nomos, invisibile come quello di Antigone (tra i libri di Paola Mastrocola c’è anche «Nimica fortuna: Edipo e Antigone nella tragedia italiana del Cinquecento», 1996), che lo spinge a elaborare una teoria economica ripensando al passato, all’antica libertà dei mari e al libero mercato di oggi, entrambi soffocati dalla tecnica selvaggia che rende artificiali i luoghi originari, il legame tra vita e territorio, l'incrocio tra l'homo che è humus, l’essere fatto di terra, e l’anthropos, l'uomo che guarda in alto.

Giovanna Ioli



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