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Papa Giovanni: "Io butto il seme poi tocca a Dio"Dopo aver lasciato Loreto nel febbraio del 1989, l’arcivescovo Loris Capovilla vive a Camaitino di Sotto il Monte, immerso nel clima umano e spirituale di Giovanni XXIII. Mons. Capovilla, più sentimento o ragione nella decisione di trasferirsi nel paese natale del suo Papa? Angelo Giuseppe Roncalli amava immensamente la sua terra, la sua linea della vita partiva da qui e qui faceva ritorno. Fino al 1958, l’anno in cui fu eletto Papa, qui erano i suoi approdi di vacanza, nella preghiera e nell’aria azzurra. E qui ho messo anche la mia tenda, dopo aver girovagato per 30 anni in Italia. Ho trovato accoglienza all’istituto delle Poverelle. A Sotto il Monte volevo raccogliere i ricordi suoi, anche le piccole cose, perché piano piano, lentamente, possa essere conosciuto il suo spirito. Che non sta racchiuso tra le cose umane, e belle, che ha fatto (anche in quelle, certo), ma sta più in alto. Ricordiamo tutti la sera d’apertura del Concilio, quando dice «Guardate la luna, là, in alto; sembra essersi affrettata per vedere questo spettacolo…». Mi sono sempre detto: è bellissimo tutto questo, ma se voglio parlare della poesia e della luna, mi accontento di Leopardi, non ho bisogno di papa Giovanni. La chiave per capire la persona, vocazione e la dedizione di quest’uomo è altrove. Ed è là, quando dice davanti al mondo intero, vedendo l’applauso, la gioia, la commozione della piazza: «La mia persona conta niente, è un fratello che parla a voi, un fratello diventato Padre per volontà di nostro Signore. Ma tutti insieme, paternità e fraternità, è grazia di Dio. Tutto, tutto! Continuiamo dunque a volerci bene, così: e nell’incontro proseguiamo a cogliere quello che unisce, lasciando da parte, se c’è qualcosa, quello che potrebbe tenerci un poco in difficoltà…». Lo scrittore François Mauriac confessò: «In quel momento ho capito che cominciava un’epoca nuova. Nel muro spesso della divisione, quell’uomo è riuscito a provocare una fessura, non una breccia, e dalla fessura è passato lo Spirito». Iniziava lì un nuovo cammino per l’unità della famiglia umana. Ci vorranno millenni, ma l’importante è cominciare a guardarci, a darci la mano. Siamo fratelli e amici, non più avversari, vogliamo unirci, non per vivere un’utopia, ma la realtà evangelica. Dobbiamo tutti chiamare lo stesso Padre che sta nei cieli, essere fratelli tra noi e ricordarci, come cristiani, che i beni ci sono stati dati per utilità comune, perché siamo un corpo solo. Non ne ho trovato un altro che abbia detto la stessa cosa, nella storia, per quel poco che ne so io. Guardando al Concilio Vaticano II cinquant’anni dopo, che cosa vede? Che in mezzo secolo abbiamo fatto della strada. Quanta non ne era stata fatta nel corso dei secoli. Se il 27 ottobre dell’anno scorso ad Assisi Benedetto XVI, che sappiamo essere un uomo particolarmente equilibrato, un teologo, non un sentimentale, ha affermato nel suo discorso che anche i cristiani hanno favorito delle guerre di religione e di questo dobbiamo vergognarci, perché non dovrei dirlo io? Sul letto di morte Giovanni XXIII pregò perché i cristiani siano una cosa sola. Occorre essere in chiaro: non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a capirlo meglio. Le difficoltà non dovrebbero rompere la carità. È venuto il momento, più che in passato, in cui dobbiamo essere solidali: In necessariis, unitas; dobbiamo avere rispetto dell’uomo, dei valori, dei principi, sempre ricordando che in dubiis, libertas e, soprattutto, in omnibus, caritas, se manca l’amore, non siamo cristiani. Lei aveva qualche fondata preoccupazione quando papa Giovanni XXIII le parlò dell’intenzione di indire il Concilio. Perché? Io non sono un Padre conciliare, né mai ho pensato di mettermi a discutere alla pari con papa Giovanni: mi sono sentito al servizio di questo uomo di Dio. Un giorno, a passeggio nei giardini vaticani, mi prese sottobraccio e mi confidò: «Ho 77 anni, sono vecchio, il Concilio è un’impresa enorme, che prevede una preparazione, problemi… Lo so che tu sei preoccupato e un po’ scettico. Tu pensi come un imprenditore: il progetto, la ditta che deve fare i lavori, la costruzione e l’inaugurazione. Quando si riceve una buona ispirazione, bisogna accoglierla con gratitudine, è un evento nella vita di un uomo. Se poi Dio mi dà anche la grazia di poter avviare il Concilio, meglio ancora. Non è l’uomo che lo fa, o il Papa; è Dio, lo Spirito Santo. Noi siamo soltanto piccoli collaboratori. Se si ragiona così, anche come persone si è prudenti e sapienti e come preti si è anche credenti veramente nell’azione di Dio. Io butto il seme, non è necessario che lo veda crescere. I miei occhi di carne vedono il seme che marcisce per terra, ma gli occhi della speranza vedono già la spiga biondeggiante fra i solchi». Capii il valore profetico di un’intuizione. L’11 ottobre 2012, in una data non casuale, che fa memoria dell’apertura del Concilio e del beato Giovanni XXIII si è inaugurato l’Anno della fede. Che cosa può dare in più la fede, a chi crede, rispetto alla ragione? L’opportunità di trascendere il tempo e lo spazio. D’altra parte, proviamo a pensare: noi abbiamo qualcosa di noi stessi, del nostro corpo che non conosciamo. Come funziona il cervello? E quelle macchine straordinarie che sono gli occhi, le orecchie, i polmoni, il cuore, il sangue che scorre nelle vene senza che ce ne accorgiamo? Ma ci saranno realtà più grandi di queste, ancora, al di là degli spazi. Noi siamo gli uomini che cercano di sapere. La fede ci illumina e guida. Non so rispondere com’è Dio. In passato era proibito raffigurare Dio, perché noi tendiamo a materializzare tutto. Anche il più grande scienziato, che sa moltissimo, quanto sa? Mi viene in mente il «Piccolo Principe». Noi lavoriamo con le nostre categorie e con le nostre esperienze. Nasciamo e non sappiamo nulla; impariamo qualcosina che poi dimentichiamo anche presto. La più grande disgrazia è che dopo i 40 anni la maggioranza delle persone, uomini e donne, si siede, non progredisce più, naturalmente e per fortuna con molte eccezioni, ma la maggior parte si accontenta. Non può bastare. Siamo stati creati per l’infinito, ce l’ha detto sant’Agostino: se ti mettessero dentro tutte le cose del mondo, ancora non ti basterebbe, perché siamo fatti, appunto, per l’infinito. Questo mi dà la fede. Giuseppe Zois
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