Quale dei due ha copiato?

Chi ha copiato chi? Un “giallo” nel “giallo”, un caso di plagio spettacolare tra due classici della letteratura dell’Ottocento, Edgar Allan Poe e Alexandre Dumas. A scoprirlo è stato Ugo Cundari, che nell’archivio di una biblioteca napoletana ha rinvenuto un lungo racconto di Dumas, «L’assassinio di rue Saint-Roch», pubblicato a puntate su «L’Indipendente», quotidiano da lui fondato a Napoli con l’appoggio di Garibaldi, tra il 28 dicembre 1860 e l’8 gennaio 1861, e ora edito da Baldini Castoldi Dalai (pp.111, euro 12,90).

Il testo è un calco quasi perfetto, con minime varianti, de «I delitti della rue Morgue» (1841) di Poe, capostipite del genere poliziesco. Nella prefazione Dumas afferma di aver ospitato lo scrittore americano a casa sua a Parigi nel 1832 e di avergli fatto leggere un articolo della «Gazette des Tribunaux» riguardante la cronaca di un duplice assassinio: due donne, madre e figlia, vengono trovate orrendamente uccise, una in cortile con la gola tagliata, l’altra incastrata nella canna fumaria del camino al quarto piano di uno stabile, in un alloggio con la porta chiusa dall’interno.

Gli incroci e le coincidenze sono stupefacenti, a partire dai nomi: nel racconto di Poe il detective è Auguste Dupin, in quello di Dumas è lo stesso Poe, mentre il medico che esamina i cadaveri delle due donne si chiama Paul Dumas in Poe e Paolo Dupin in Dumas. Il racconto di Dumas non fu mai pubblicato in volume, o almeno non se ne ha notizia. Le prime traduzioni dei racconti di Poe escono anonime a Parigi nel 1846 e Baudelaire cura la prima raccolta dei suoi racconti, col titolo «Histoires extraordinaires», tra cui anche questo racconto, nel 1856. La prima traduzione italiana è del 1863 e ha per titolo «Il doppio assassinio in via Morgue».

E’ Dumas che ha copiato da Poe, visto che il suo racconto esce vent’anni dopo, o è Poe ad essere un astuto plagiario? Il mistero rimane e, a meno che non saltino fuori nuovi documenti, soltanto i due scrittori redivivi potrebbero risolverlo. Si incontrarono veramente Poe e Dumas a Parigi nel 1832? Non si può esserne certi, perché una lettera dell’autore del «Conte di Montecristo» del 1832, che racconta il suo incontro con lo scrittore americano, è andata perduta e in quell’anno c’è un buco nelle lettere di Poe. I suoi biografi sostengono che non avesse mai varcato l’oceano a parte un soggiorno in Inghilterra e Scozia da bambino, mentre lui ammise di essere stato in Russia senza passaporto tra il ’28 e il ’32 e di aver avuto problemi con la giustizia a Pietroburgo, ma nessuno è riuscito a trovare testimonianze certe, anche se qualcuno suppone che si fosse arruolato nella marina mercantile. L’unica cosa che si sa è che Dumas e Poe facevano parte di una setta massonica rivoluzionaria insieme a Fenimore Cooper.

Quanto alla topografia del delitto, non è mai esistita a Parigi la rue Morgue, esisteva soltanto la zona dell’obitorio, mentre nel racconto di Poe la rue Morgue è indicata come «una di quelle stradine che attraversano rue Richelieu e rue St.Roch». Teniamo conto di un altro fatto: Poe non amava i plagiari, verso cui aveva sempre avuto parole di disprezzo, mentre Dumas nel plagio ci sguazzava. Certo, se Poe fosse andato a Parigi nel 1932, ospite di Dumas, avrebbe potuto leggere l’articolo di cronaca nera su indicazione dello scrittore francese e averlo utilizzato per il suo racconto. Aver chiamato il medico Dumas ci pare un indizio importante in questo senso.

Poeta maledetto idolatrato da Baudelaire, che vedeva in lui il suo doppio, e apprezzato da due intellettuali raffinati come Mario Praz e Giorgio Manganelli, Poe, figlio di attori girovaghi, vissuto tra miseria, alcolismo e malattie, ha anticipato i generi letterari più moderni, dal gotico all’horror, dal giallo alla fantascienza, e ha ottenuto la notorietà con «Il corvo», poemetto del 1845 celebre per l’ossessiva ridondanza della parola nevermore (mai più). L’anno successivo tenne una rubrica sulla «Godey’s Magazine and Lady’s Book», una delle più popolari riviste femminili americane, dal titolo «I literati di New York City», ora pubblicata per la prima volta in italiano a cura di Giovanni Puglisi e Gabriele Micciché (Bompiani, pp. 225, 12 euro), con una bella appendice che riproduce le illustrazioni dei suoi racconti, firmate da Manet e Doré, Kubin e Odilon Redon, Munch e Rackham, tra gli altri.

Da maggio a ottobre del 1846, in sei puntate, Poe scrisse 38 medaglioni, brevi profili biografici di scrittori, di cui 12 scrittrici, della buona società newyorkese. Come scrivono i curatori, si tratta di un abbozzo di una delle prime storie letterarie americane in cui Poe, con «nitida chiarezza di idee» e «purezza d’animo», sferza in modo impietoso i letterati del tempo, allora piuttosto noti, oggi del tutto dimenticati.

Nell’introduzione, è tra i primi ad accorgersi della grandezza di Hawthorne, «un genio straordinario, che non ha rivali né in America né altrove», anche se poco riconosciuto dalla stampa e dal pubblico. Si riferisce ai «Racconti narrati due volte», e teniamo presente che lo scrittore americano non aveva ancora scritto il suo capolavoro, «La lettera scarlatta». Quanto ai letterati, Poe scrive: «Gli scrittori più “popolari”, quelli di maggior “successo” (almeno per un breve periodo) sono, in novantanove casi su cento, persone di mera destrezza, perseveranza, sfacciataggine: in una parola, intriganti, adulatori, ciarlatani». Rileva inoltre «una notevolissima discrepanza tra l’apparente pubblica reputazione di un dato autore e l’opinione che ne esprimono, a voce, coloro che sono meglio qualificati a giudicare». Proprio come accade oggi, dove però non si sa se esista un Hawthorne.

Massimo Romano

 



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