L'officina linguistica di Beccaria

C’è un motivo dominante e fortemente simbolico che determina la natura e la struttura del nuovo libro di Gian Luigi Beccaria («Alti su di me. Maestri e metodi, testi e ricordi», Einaudi, pp. 269, euro 22,00) ed è quello del doppio registro, di un Giano bifronte che guarda tempi diversi dell’esistenza, come fossero una serie di porte che portano nella direzione di un possibile futuro per la vita e per la letteratura.

Che l’autore sia uno dei più noti studiosi della “gloria della lingua”, membro dell'Accademia della Crusca, dell'Accademia delle Scienze di Torino e dell'Accademia dei Lincei lo sanno in molti, ma questo libro non ci presenta solo il garbato rigore e l’impegno nel condividere con i lettori i segreti di un vocabolo, del suo valore verbale al microscopio, ma il piacere di aprire le porte private della sua officina e rivelare la natura del suo stile, ricco perché nutrito da parole d’altri. È dunque il registro della coralità a tenere il campo, non solo quella dei tanti autori da lui studiati, ma di quel gruppo familiare formatosi tra amanti della parola letteraria, senza gerarchie di forma o disciplina. Una fraternità, insomma, che affonda le sue radici nello studio, intrecciandosi a quelle di padri e maestri, allievi e amici, dando forma a un’opera intessuta di intertestualità affettive e scientifiche.

Non è dunque un caso che il titolo chiami in causa gli «Strumenti umani» cantati da Vittorio Sereni, quando invocava «un grande amico alto su di me / e tutto porti me nella sua luce», perché è proprio in quei versi la chiave di lettura del suo libro, che richiama alla memoria e quindi alla vita il cenacolo che solo pochi decenni fa occupava in Italia un posto luminoso, capace di accendere fiamme nella mente di allievi alla ricerca di passioni e non di semplici nozioni. Scorrono così nelle pagine di «Alti su di me» le figure dell’apprendistato magistrale (Benvenuto Terracini e Giovanni Getto in prima linea), ma pure quelle di compagni incontrati lungo il cammino, dai quali ha attinto fraternità e insegnamenti pur restando fedele al suo mestiere di scrivere, diverso e complementare.

«Ciascuno ci dava qualcosa di diverso», dice, un ingrediente per il vaso alchemico necessario a leggere un’opera d’arte senza ridurla a «una inutile ingegneria di sistemi», «riducendo la pagina a formule matematiche», «a un gioco insomma che non interessava nessuno se non il costruttore di quel meccano». Non è dunque un caso che tra i suoi sodali emerga Claudio Magris, con il suo disincanto per la scienza applicata alla letteratura e il distacco dalle fredde analisi formali dello strutturalismo tanto in voga negli anni Sessanta, per dare invece rilievo «al cerchio cangiante della vita che ci gira intorno».

Ai ricordi dell’ormai mitico collegio universitario torinese di via Galliari, che riemergono impavidi davanti al tempo ormai scorso, si sono aggiunti negli anni altri compagni dell’ateneo sabaudo che amavano «fare squadra»: Stefano e Angelo Jacomuzzi, Marziano Guglielminetti, Arturo Genre. Poi, via via, si aggiungono gli incontri solo geograficamente fuori di casa, controfigure legate alla «leggiadria» di una terra comune o a vite misteriosamente “parallele”: Nuto Revelli e «Il mondo dei vinti», Gina Lagorio e il suo «Inventario» di «radici» e «di una vita piena», Maria Corti che nel «Dialogo in pubblico» si racconta e racconta a Cristina Nesi i suoi amici poeti e scrittori, Lore Terracini che dallo zio Benvenuto ereditò la felicità intellettuale, i «Saggi e memorie» di Giovanni Nencioni, con quell’ultimo capitolo di «Profili e ricordi» nel quale si specchia anche il titolo di Beccaria.

Pronto a sfuggire alle etichette algide di una filologia che orchestra metodi e strumenti, quando il discorso deve far risuonare le corde di un’indicibile sofferenza, Beccaria troverà un sodale anche in Pier Vincenzo Mengaldo, uno storico della lingua pronto a mettersi tra parentesi, sprofondando in una sorta di silenzio narrativo nel raccogliere il «coro sommesso» delle testimonianze terribili della Shoah, ma con la tagliente volontà di far emergere l’atrocità di un genocidio che testimonia la «banalità del male», l’annullamento delle norme morali che permettono di distinguere il lavoro burocratico dalla strage di uomini inermi. È un susseguirsi di lampi, di immagini o flash back impossibili da riassumere, né si riesce a discernere a prima vista una struttura diversa dal turbine di memoria, di scuola, di muse cangianti, amici e maestri, studiosi e poeti che hanno lasciato nel suo stile un segno, un germoglio, generando come in una sorta di contagio plurimo un nuovo modo di incedere nel linguaggio, «d’anima e di pietra», avrebbe detto Quasimodo.

A ben vedere, invece, in «Alti su di me» anche le strutture si annidano bifronti, rispettando il codice del doppio e dello specchio che orchestra vita e letteratura. La prima, la più corposa, è quella degli incontri con padri, maestri, fratelli e sorelle maggiori e minori, allievi vecchi o nuovi, nascosta quanto basta per dimostrare che il meccanismo dello strutturalismo s’inceppa, perché Beccaria nel suo lungo racconto di formazione ha voluto incidere profili d’anima e di carne come componente ineludibile di una studiositas che non può e non vuole rinunciare al suo viaggio nel paese del riconoscimento.

Questa prima parte può tuttavia già essere considerata come appello al lettore per leggere la seconda, che fa da contralto alla memoria personale di affetti, chiamati a restituire fiato a un mosaico di presenze che hanno reso possibile e felice una vita non solo di carta. Qui, infatti, il discorso diventa universale e punta sul «mestiere» di scrivere, a cominciare da quello che impasta letteratura in proprio e interpretazione di parole d’altri. Il solo exemplum tra i possibili exempla (Pasolini, Zanzotto, Caproni e Sereni, Giudici, Sanguineti) chiamato a rappresentarla è così ancora una volta bifronte: l’Italo Calvino critico, che rintraccia negli scrittori che amava le «sue evidenti controfigure», come scrisse Giorgio Bertone.

Da questo punto in poi il campo visivo si allarga ancora, scava in profondità temporali con altre partizioni e riverberi, per giungere, infine, al punto più alto, all’esempio per eccellenza che giustifica l’impianto di questo libro. «Alti su di me», infatti, si chiude con i libri che «usano il linguaggio dei libri», con la citazione e i modelli culturali che hanno un unico supremo esempio, quello di Dante che, dalla «Vita nuova» alla «Commedia», ha saputo fondere e riportare al presente un intero universo di autori destinati a forgiare una lingua così “alta” da vincere il tempo.

Giovanna Ioli


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