Margaret Thatcher, l'incredibile

Nella sua ansia di cambiare il mondo adattandolo alle proprie concezioni neoconservatrici Margaret Thatcher provó a cambiare anche il Vangelo. «Nessuno si ricorderebbe del buon samaritano», spiegò infatti in un famoso discorso all’Università di Edinburgo, «se egli avesse avuto soltanto delle buone intenzioni. Ma aveva anche denaro…».

Ergo, prima di pensare agli altri bisogna pensare ad arricchirsi. Negli undici anni (1979-1990) in cui fu a capo del governo britannico, prima donna della storia eletta a questa carica, non prestò mai molta attenzione ai problemi sociali del Paese: ai senza casa, ai senza lavoro, ai diseredati. E questo perché a suo dire «quella cosa che chiamiamo società non esiste; esistono gli individui». I quali hanno il dovere d’imparare a reggersi da soli, far da sé e non dipendere da sussidi dello Stato. Quando la Signora stravinse per la terza volta le elezioni, John Mortimer, illustre filosofo e scrittore di sinistra, le riservò questo giudizio: «Ha reso il partito conservatore più eleggibile, ma lo ha derubato della compassione».

Tale era, all’ombra delle sue grandi innovazioni politiche, la «Dama di ferro», Margaret Hilda Thatcher (nata Roberts), che si è spenta la mattina di lunedì 8 aprile, a 87 anni, in un appartamento del lussuoso Hotel Ritz per un ictus cerebrale, non il primo della sua vecchiaia. Come mai fosse lì non è del tutto chiaro al momento in cui scriviamo. Sembra che i due figli, Mark e Carol, ce l’avessero portata giorni addietro perché vi era meglio accudita e meno disturbata che a casa. Ormai da quasi sette anni l’ex premier soffriva di demenza senile. Adesso non riusciva più a reggersi né camminare senza aiuto, e la memoria non affiorava che per brevi tratti. Uno stato mentale di cui ha dato cruda e spietata testimonianza il film «The Iron Lady» nell’eccellente interpretazione di Meryl Streep, premiata con l’Oscar. Dal 2005 i medici le avevano sconsigliato qualunque attività politica; e il pubblico s’era reso conto delle sue condizioni due anni dopo, quando s’era recata alla Camera dei Comuni a inaugurarvi la propria statua in bronzo, nella hall, dirimpetto a quella di Winston Churchill. Era riuscita a dire «L’avrei preferita di ferro...», con un lampo di humour. Ma non sembrava ben comprendere dove fosse, né per quale evento.

Sic transit gloria mundi. Questa donna, di modeste origini borghesi, aveva aderito a un partito, quello conservatore, che non le si confaceva per censo, essendo tradizionalmente il partito dei ricchi, per giunta a prevalenza aristocratica; ed era entrata in un universo politico e parlamentare maschilista cui la parità col “sesso debole” (come a quel tempo si diceva ancora) era tutt’altro che gradita. Ma aveva una volontà indomabile e un’intelligenza acuta e, quando occorresse, machiavellica. Né ai suoi esordi politici, poco più che ventenne, poteva dirsi proprio sprovvista di mezzi e qualifiche.

Era nata nella patria di Isacco Newton, Grantham, una cittadina del Lincolnshire. Suo padre, Alfred Roberts, era un piccolo droghiere, parsimonioso quanto ambizioso per sé e per le due figlie, di cui Margaret era la più dotata. L’alloggio era sopra il negozio, meno di cinquanta metri quadrati, senza acqua calda corrente, e col gabinetto fuori. I vestiti per le ragazze li cuciva la madre. La frugalità era regola quotidiana. Con tutto ciò, Margaret, finita la scuola secondaria, vinse una borsa di studio per l’Università di Oxford (Somerville College, allora esclusivamente femminile) ove si laureò in chimica, un diploma cui più tardi ne avrebbe aggiunto un secondo, in legge. Il padre, nel frattempo, era divenuto sindaco di Grantham.

A venticinque anni Margaret conobbe un industriale benestante e divorziato, Denis Thatcher, e di lì a poco divenne sua moglie dandogli poi (1953) due figli gemelli, Mark e Carol. Ma benchè tutt’altro che femminista, la Signora non abbandonò le sue mire politiche e con le elezioni del 1959 entrò alla Camera dei Comuni vincendo per il partito conservatore il seggio del borgo londinese di Finchley, circoscrizione che resterà sua fino al 1992. Nel 1970 il premier Edward Heath le affidò il ministero dell’Educazione, e lei vi si segnalò subito con la decisione di sopprimere la distribuzione gratuita di latte agli alunni delle elementari; il che le valse il nomignolo spregiativo di Thatcher the Milk Snatcher, grosso modo, per conservar la rima, «la strega che il latte ci frega».

La sua conquista della leadership del partito, nel 1976, fu un piccolo capolavoro di sagacia machiavellica. Edward Heath, benchè sconfitto per la terza volta dal laburista Wilson alle urne, non intendeva dimettersi, e il nome della Thatcher fu avanzato dai maggiorenti solo come un ammonimento (un colpo a salve) per deciderlo al ritiro, in vista d’altre candidature. Ma quando si contarono i voti si capì che la Signora aveva fatto il pieno e si sarebbe imposta, come poi accadde, in qualunque successivo scrutinio. Per la prima volta uno dei due maggiori partiti del Regno Unito aveva a capo una donna.

In quel tempo la Gran Bretagna, definita dai politologi come «la grande malata dell’Europa», viveva una crisi sociale profonda. Il governo laburista non riusciva a tener testa allo strapotere dei sindacati, pur tradizionali finanziatori del laburismo; e ne era sopraffatto ad ogni tentativo di regolamentazione. Nell’imminenza delle elezioni del 1979 scioperi il più spesso insensati piagavano il Paese tra l’indignazione del pubblico. Londra, per esempio, era immersa nelle spazzature fetide che i netturbini rifiutavano di sgomberare. Cessarono il lavoro anche gli addetti ai cimiteri e quindi si dovettero interrompere le sepolture, si può immaginare con quali conseguenze. Al premier Wilson, dimissionario a sessant’anni per segni di Alzheimer, era succeduto James Callaghan, ”Jim faccia di Sole” un sorridente imbelle, appoggiato dalle Unions.

Su questo sfondo, quantunque nuova ai grandi confronti politici, Margaret Thatcher ebbe buon gioco con le sue promesse di riforme e cambiamenti radicali e vinse le elezioni con 339 seggi contro 269 dei laburisti e una maggioranza di 43 sull’insieme degli altri partiti. Si insediò a Downing Street recitando sulla soglia, dinanzi alle telecamere, tre auspici presi a prestito da san Francesco: «Dove c’è discordia, portare armonia; dove c’è errore, verità; dove dubbio, fiducia». In pratica, fece poi tutto il contrario, o quasi, e, come ha scritto «L’Independent», fu il leader politico «più divisivo» dei tempi moderni. Ma il Regno Unito ne uscì radicalmente cambiato.

Gli undici anni di potere neoconservatore della Signora si compongono di due parti: la prima va dal 1979 al 1982; e la seconda dal 1983 al 1990. Ció che le separa è la guerra delle Isole Falkland. Dopo quasi tre anni di governo la nuova politica non convinceva più neppure tutti i ministri del Gabinetto, figuriamoci l’elettorato. Ai ricchi erano state ridotte del 17 per cento le tasse. Ma era un regalo a spese degli altri, ossia da pagarsi con un incremento delle imposte indirette, a cominciare dall’Iva, raddoppiata. La Signora s’era preso come consigliere finanziario il monetarista prof. Alan Walters, fautore di budget deflazionistici, senza riguardi per la disoccupazione. Scoppiarono moti violenti a Brixton, nel sud della capitale, a Toxteth (Liverpool) e altrove. In poco più di trenta mesi la Thatcher era diventata il premier più impopolare della storia inglese moderna. I notabili del partito cospiravano per disfarsene.

Quanto alle Falklands, di cui il premier conosceva a malapena l’esistenza, l’unico provvedimento governativo era stato di rimpatriare l’ultima nave che le pattugliava, la Endurance, fatta per ricerche scientifiche, ma armata d’un cannone. Buenos Aires recepì questo ritiro come un tacito invito a riprendersi l’arcipelago dal quale nel 1833 una flotta militare inglese aveva espulso i coloni argentini. Il 2 aprile 1982 il generale Leopoldo Galtieri, appena giunto al potere e in cerca di popolarità, ordinò l’invasione. La signora Thatcher, ferita nel patrio orgoglio e anche lei bisognosa di popolarità, ordinò alla Royal Navy di organizzare una spedizione per la riconquista. Quasi tutti i ministri, a cominciare da quello degli Esteri, le sconsigliarono questa replica. Ma non ci fu verso. Voleva la guerra e la vinse, al costo di un migliaio di morti tra le due parti. Ma i benefici politici per lei furono enormi. Aveva fatto risorgere per un momento nello spirito del Paese la visione della grandeur imperiale, la Britannia che domina i mari. Aleggiava dovunque quel sentimento deleterio ed esaltante che si chiama sciovinismo. Adesso l’opinione pubblica era massicciamente dalla sua parte. Adesso, quale Dama di ferro, poteva tradurre in pratica, politicamente, le sue convinzioni, sul buon samaritano e su tanti altri nuovi concetti.

In questo clima fervido Margaret Thatcher trionfò nelle elezioni del 1983 garantendosi una maggioranza di 144 seggi, a dispetto d’una economia per nulla florida e d’una massa di disoccupati ferma sui tre milioni. Da quel punto, sconfitti i nemici esterni, cioè gli argentini, la signora si consacrò a debellare quelli interni, che per lei erano anzitutto i minatori e, in generale, i sindacati. I minatori in sciopero di protesta contro licenziamenti e ristrutturazioni resistettero senza paga per un anno. Perfino la Regina si commosse e provò discretamente a intercedere per loro, ma invano. Seguì la resa e la scomparsa di fatto dell’industria del carbone. La successiva regolamentazione dei sindacati li rese praticamente impotenti e quindi superflui nella tutela dei lavoratori, molti dei quali smisero di iscriversi. Ma d’altronde di industrie grandi e piccole ne sparirono a decine. E quelle massime, statali, furono via via privatizzate: gas, elettricità, acque potabili e fognature, telefoni... Un cambiamento che il vecchio ex premier MacMillan, pur conservatore, riassunse sarcasticamente così: «Lo Stato svende la sua argenteria».

A ogni privatizzazione i cittadini erano invitati a farsene azionisti, e chi poteva seguiva il consiglio. Allo stesso modo gli inquilini delle case popolari erano sollecitati e aiutati a divenirne proprietari. Più di un milione lo fecero e la Signora commentò che in nessuna frase inglese c’è tanto orgoglio come nel dire «sono padrone di casa». Ma al disotto di questi nuovi benestanti le classi povere continuavano ad ampliarsi. Il neo conservatorismo, contando per ogni rinnovamento profittevole sulle forze del libero mercato, riduceva i controlli e snelliva le trafile, Era la deregulation, che il 27 ottobre 1986, chiamato Giorno del Big Bang, investì pure la City, festosamente, affrancandone lo sciame di banche multinazionali e istituti finanziari da ogni sorta d’obblighi e convenzioni. Mai c’erano state così tante possibilità di arricchirsi, e in fretta. Le disparità sociali si acuivano, ma il numero dei soddisfatti era bastevole per far durare il tatcherismo. La Dama di ferro si assicuró agevolmente anche le elezioni del 1987, la sua terza vittoria consecutiva alle urne.

La riconquista delle Falklands le aveva dato una certa rinomanza internazionale e forse per questo aveva cominciato a interessarsi di più alla politica estera: Ronald Reagan, per certe affinità ideologiche, era diventato un suo devoto e le chiedeva persino consiglio; Gorbaciov accettava le sue feroci critiche al bolscevismo. Ma con l’arte della diplomazia e la sapienza ch’essa comporta la Signora aveva poca dimestichezza. Detestava il Commonwealth, pur prediletto dalla Regina, che ne è sovrana; considerava Mandela, allora in prigione da vent’anni, un comunista incline al terrorismo. Ma ai vertici europei, per esser donna, poteva esprimersi con una “spontaneità” talvolta grossolana che nessun rappresentante maschio si sarebbe permesso. Così, nel reclamare più rimborsi comunitari per il Regno Unito, gridò infervorata «voglio indietro mezza la mia pagnotta!». Con l’andar del tempo, pur avendo fatto campagna per il «sì» degli inglesi nel referendum del 1975, divenne sempre più eurofoba. E fu questo atteggiamento, quindici anni dopo, a segnare la fine della sua carriera. Non furono gli elettori, nel novembre 1990, a estrometterla dal governo, ma i suoi colleghi di partito, allora in maggioranza filoeuropei.

Pure i suoi successori a Downing Street si sono conformati in tutto e per tutto, finché gli è stato possibile, al suo modello. Tony Blair, una volta riportati al governo i laburisti, non ha revocato alcuna delle privatizzazioni da lei sancite, né le deregulation, né le liberalizzazioni del Big Bang. Solo Gordon Brown, e l’attuale premier conservatore, David Cameron, che gli é succeduto al potere, hanno cominciato a rendersi conto che un sistema senza controlli, e incentrato sul profitto e sulla avidità quali valori supremi, genera in sé le forze esplosive che lo distruggeranno. Le vicende della City dopo il tracollo della Lehman Brothers e i fallimenti a catena che ne sono seguiti sono deflagrazioni di questa specie, alle quali si può far risalire in gran parte la crisi globale in cui vive l’Occidente. Il thatcherismo, venuto in auge un po’ dappertutto, resta una dimensione azzardevole, da investigare.

Di tutto questo, la signora passata l’8 aprile dal sonno della mente a quello più sereno dei dormientes di san Paolo, non ha più saputo nulla. Fu vera gloria la sua? Forse fu solo l’odissea, in parte coraggiosa e in parte deplorevole, d’una ragazza di Grantham che s’era votata a una missione mal concepita. E che Dio le perdoni anche il suo equivoco sulla carità del buon samaritano tra Gerusalemme e Gerico.

Carlo Cavicchioli


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