Padri e figli in dialogo

Quello del rapporto fra i figli e il padre è un tema talmente centrale della vita di ogni persona che la letteratura, specchio e riflesso dell’esistenza, non ha potuto fare a meno di occuparsene. Qualcuno si è spinto a dire che l’intera tradizione culturale non è altro che una infinita rielaborazione di tale rapporto. A conferma di tali affermazioni, vale la pena segnalare alcuni testi usciti di recente che tornano su questa insuperabile questione, spesso con esiti apprezzabili.

Romanzo toccante e prezioso è «Vita e morte di un ingegnere» di Edoardo Albinati (Mondadori, pp. 150, euro 18,00), classe ’56, scrittore serio e profondo, che, tra l’altro, insegna all’interno del penitenziario di Rebibbia. Quello che tratteggia l’autore romano è il ritratto di un padre e della sua generazione. Siamo negli anni del boom economico, dell’Alfa Romeo, degli imprenditori. Tempi così diversi dai nostri, nei quali l’entusiasmo era contagioso, chi aveva voglia di fare e talento poteva gettarsi fiducioso nel futuro. Uno di questi è l’ingegner Albinati, non a caso qui evocato con quella qualifica, «ingegner», che tanto significava. Il padre è sempre un mito, ma la malattia non guarda in faccia nessuno. Ecco allora, a fare da contrappunto alla descrizione di una stagione ricca di energia, quella della malattia, del logoramento del corpo, forse anche di quel mito che sembrava indistruttibile. Altro dettaglio rilevante: poco importa se quel padre non regalò mai un abbraccio al figlio, pur sempre “il padre” egli fu…

Il lavoro di Albinati rivela qualche affinità con quello di Valerio Magrelli, pressoché suo coetaneo (vorrà dire qualcosa? È questa l’età in cui siamo chiamati alla resa dei conti con la figura paterna?), essendo del ’57. Poeta e docente di Letteratura francese, Magrelli ha raccolto per dieci anni appunti sulla vita del padre. Non sfugga che, anche in questo caso, è la malattia, l’insinuarsi della fragilità in chi, agli occhi del figlio, era comunque un eroe eterno, a far scattare il desiderio di farsi più vicini. Alla morte del padre, Magrelli ha raccolto queste istantanee generando «Geologia di un padre» (Einaudi, pp. 140, euro 18,00), composto di 83 capitoli, tanti quanti gli anni di vita del genitore. Anche questo un racconto commovente e toccante, sebbene si guardi sempre dallo scadere nella retorica e nel patetico. I punti di contatto con Albinati si moltiplicano: anche il padre di Magrelli fu ingegnere, precisamente del settore edile, anche lui si gettò nella scia del boom economico, costruendo case e palazzi. Un padre vicino e lontano, presente e assente, insofferente della domenica, incapace di stare in vacanza con la famiglia, eppure capace di tenerezze struggenti. Il figlio lo osserva con pudore nel momento della perdita della memoria, dell’abbandono della forza, e lo accompagna all’estremo saluto, scoprendolo più necessario che mai.

Di una generazione più giovane è Matteo Righetto, padovano, insegnante di Lettere, che ha appena pubblicato «La pelle dell’orso» (Guanda, pp. 160, euro 14,00). Domenico vive sulle montagne dolomitiche insieme al padre. La mamma è morta da qualche tempo, portata via da una malattia e, benché il padre, per reazione al lutto, si sia dato all’alcol e sia violento con il figlio, è per lui punto di riferimento fondamentale. Sulle Dolomiti si aggira un orso dalle dimensioni spaventose. Nei bar del paese non si parla d’altro. Forse per dimostrare a tutti che non è solo quell’ubriacone che tutti credono, forse per rivalsa verso una diffidenza mai superata, il papà di Domenico scommette di uccidere l’orso: se ce la farà, il riccone del posto gli darà un milione di euro. E così padre e figlio partono, salgono sui monti, in una giornata di ottobre, mentre il freddo sta per avvolgere le montagne e la natura è padrona del tempo e dello spazio. Qui avviene una metamorfosi: un padre inerme, distrutto, assente, debole diventa pieno d’iniziativa, coraggioso, depositario di una sapere da trasmettere al figlio. Arriverà persino a dirgli che gli vuole bene, una fiammata che scioglie la neve che già si accumula sulle vette, dirada la paura del mostruoso animale e riscatta anni di solitudine. Fino all’incontro decisivo e finale, nel quale il figlio, preparato e sostenuto dal padre, si rivelerà più forte del genitore. Spetterà a lui il compito di attestare davanti agli occhi della gente del paese che sul suo conto si erano sbagliati tutti.

Questo racconto lungo ci introduce in qualche modo all’ultimo libro che qui prendiamo in considerazione e che meriterebbe ben altra analisi: «Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre» (Feltrinelli, pp. 143, euro 14,00). Lo ha scritto Massimo Recalcati, uno psicanalista che da anni sta riflettendo sull’”evaporazione” della figura paterna, ovvero di ogni principio di autorità. Dopo i testi «Cosa resta del padre?» (Raffello Cortina) e «Ritratti del desiderio» (Raffello Cortina), ecco questo lucido saggio in cui l’autore tenta di spingersi oltre alla descrizione del problema e di indicare la via da percorrere. In estrema sintesi, oltre al modello indicato dal complesso di Edipo (il figlio che si oppone al padre fino a “ucciderlo”) e a quello di Narciso (ripiegato in maniera sterile su se stesso) Telemaco è colui che attende il padre. La sua è un’attesa vigile, attiva, volta a cogliere l’eredità del padre e a collaborare con lui per riedificare il suo “regno”, che un giorno gli apparterà. Il modello evocato da Telemaco sembra suggerire un nuovo modo di esser padri, ma anche di essere figli, nei quali entrambi sono protagonisti di un processo che punta a valorizzare, rielaborandola in un linguaggio innovativo, originale e personale, l’eredità del genitore. Oltre ogni opposizione distruttiva, egoismo sterile e tramonto del padre, che lasciava orfano e smarrito nel mondo il figlio.

Paolo Perazzolo

 



SIR | Avvenire.it | FISC

PRELUM Srl - P.I. 08056990016