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Scrittura come giocoPer ricordare i trent’anni dalla morte di Georges Perec (1936-1982), nato da una famiglia di ebrei polacchi uccisi durante la guerra, l’anno scorso le Editions du Seuil hanno pubblicato il suo primo romanzo,«Le Condottière», rifiutato da Gallimard nel 1960. Per gli appassionati dello scrittore francese, funambolo creatore di giochi combinatori e linguistici, è ora possibile leggerlo anche in italiano, ottimamente tradotto da Ernesto Ferrero. «Il Condottiero» (Voland, pp. 170, euro 15,00) è arricchito da una illuminante postfazione di Claude Burgelin, già autore di un attento profilo critico, «Georges Perec. La letteratura come gioco e sogno» (Costa & Nolan, 1989), e da una nota conclusiva dello stesso Ferrero. Scritto tra il ’57 e il ’60, ebbe una stesura laboriosa, interrotta dalla sosta per il servizio militare dal gennaio ’58 al dicembre ’59. L’autore cambiò il titolo almeno tre volte e rastremò il testo, che inizialmente aveva una lunghezza di oltre trecento pagine. Il manoscritto venne rifiutato nonostante fosse già stato firmato il contratto, e ciò provocò in Perec uno stato d’animo di delusione, una sensazione di fallimento fino al 1965, quando venne pubblicato il suo primo libro, «Le cose», che vinse il premio Rénaudot e ottenne un notevole successo, più di centomila copie vendute. Il romanzo raccontava la storia di una giovane coppia che viene a poco a poco inghiottita dagli oggetti, dalla pubblicità, dalle mode. «Il Condottiero» viene pubblicato a oltre mezzo secolo dalla sua stesura perché, ci informa Ferrero, era «finito in una valigia di cartone pressato come in una sorta di discarica privata insieme ad altre prove giovanili considerate non riuscite». Non si tratta certo di un capolavoro, ma di «un gomitolo ingarbugliato» di fili narrativi, di un’opera immatura, scritta da un giovane poco più che ventenne, però di grande interesse perché, come rileva Burgelin, «contiene allo stato germinale i grandi testi a venire», a partire dal nome del protagonista, Gaspard Winckler, che compare sia in «W o il ricordo d’infanzia» (1975) sia ne «La vita istruzioni per l’uso» (1978), il suo capolavoro, che racconta le storie di cento stanze di un immobile parigino, popolate da una folla di personaggi come nella «Comédie humaine» di Balzac. Chi è Gaspard Winckler? Un falsario, anzi, «il principe dei falsari», un maestro della contraffazione che possiede una padronanza perfetta delle tecniche pittoriche e in dodici anni, dopo quattro di apprendistato, ha dipinto centoventi o centotrenta quadri falsi, da Giotto a Modigliani, dal Beato Angelico a Braque, da Cranach a Botticelli: «Volevo essere tutti per essere finalmente nessuno, avevo voluto proteggermi dietro quelle maschere innumerevoli, e diventare inaccessibile, e diventare inespugnabile». Su questo tema del falso, dell’impostura, della contraffazione nel mondo dell’arte Perec tornerà nel romanzo «Un cabinet d’amateur» (1979), tradotto da Sergio Pautasso per Rizzoli nel 1990 col titolo «Storia di un quadro», una sorta di giallo costruito con la tecnica della mise en abîme. Ora, a trentatré anni, Winckler vorrebbe sfuggire a questa prigione, a questa schiavitù, perché si accorge che il mestiere del falsario è «un ingranaggio infernale in cui si finisce stritolati», come osserva Ferrero. Vuole dare un taglio al passato, cancellare «l’assurda volontà di esistere soltanto dietro la copertura d’infinite maschere, di non vivere che sotto le spoglie dei morti», i grandi maestri del passato. Per dedicarsi a questa attività, ha dovuto rinunciare anche ai suoi amori, Mila lo ha lasciato e Geneviève non risponde al telefono. C’è un quadro al Louvre, «Il Condottiero», dipinto nel 1475 da Antonello da Messina, che spinge Winckler alla sfida di un’impresa impossibile: «Riuscire in quel che nessun falsario prima di lui aveva osato tentare: la creazione autentica di un capolavoro del passato». Il capitano dei mercenari, che domina il mondo con l’ironia dello sguardo, diventa una sorta di specchio per l’autore: la piccola cicatrice sul labbro superiore del condottiero è identica a quella che porta Perec, segno lasciato da una baruffa infantile. Lo scrittore, rileva acutamente Ferrero, si sente orfano del Rinascimento, «della sua superiore armonia tra pensiero e azione, tra gesto e progetto». L’incipit del romanzo si apre con un delitto: nel laboratorio sotterraneo dove lavora, Winckler ha ucciso con un rasoio Anatole Madera, il committente che gli stava sempre addosso, togliendogli il respiro e obbligandolo a produrre soltanto dei falsi. Il cadavere giace a terra con la gola tagliata. Il pittore si sente colpevole di essersi «lasciato coinvolgere in un’avventura senza sbocchi, di non aver cercato di comprendere prima, di non aver cercato di modificare il corso degli avvenimenti». Sente di aver fallito perché voleva fare un condottiero diverso da quello di Antonello, ma che fosse alla sua altezza, perché voleva creare un capolavoro autentico, perché non è riuscito a costruire il puzzle perfetto, a fondere in unità i singoli elementi, i dettagli rubati a pittori diversi. Per questo Winckler, come afferma Burgelin, è «un precursore del Perec scrittore», che aveva fatto del puzzle la sua tecnica narrativa fondamentale. Le pagine sulla descrizione del quadro sono tra le più belle del romanzo. Colgono i particolari minimi, i dettagli e le sfumature del volto, la contrazione dei muscoli, le millimetriche variazioni cromatiche che segnano la differenza tra l’originale e la copia. Alla fine Winckler si accorge di aver fallito e guardando quel volto scopre l’immagine di «un poveraccio slavato, un miserabile sbirro». Massimo Romano
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