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Il peggiore scenario economicoI risultati elettorali sono sostanzialmente definitivi nel momento in cui questa nota viene redatta, e delineano per l’economia italiana, perlomeno in un orizzonte di breve termine, il peggior scenario possibile. Favorita senza dubbio da una legge elettorale scellerata, ma soprattutto dalla profonda e del tutto prevedibile ripulsa degli elettori nei confronti di tutto ciò che odora di politica vecchio stile, l’ingovernabilità ha sostanzialmente vinto. Ed è questo che più preoccupa, considerando che l’economia del Paese, tuttora debolissima sul piano della domanda interna e del clima di fiducia di imprese, consumatori e risparmiatori, avrebbe avuto bisogno di un risultato elettorale chiaro, che desse all’Italia la prospettiva di un governo di legislatura. Possibilmente un governo che fosse in grado di garantire la continuità del risanamento finanziario perseguito dall’esecutivo tecnico negli ultimi quindici mesi arricchendola con una azione più incisiva sul fronte della crescita. Ciò avrebbe richiesto politiche di respiro strutturale sul fronte interno (liberalizzazioni, privatizzazioni, maggiore attenzione a scuola, università e ricerca, mercato del lavoro, sistema bancario, infrastrutture) e crescente credibilità a livello internazionale, soprattutto per poter rendere maggioritaria nel contesto dell’Unione europea la fiducia in una strategia di investimento a lungo termine atta a promuovere crescita e occupazione anche attraverso il finanziamento comune di grandi progetti e l’emissione, pur attentamente gestita, di debito europeo. Purtroppo, un esecutivo con un’ampia e coesa maggioranza all’interno e una riconosciuta credibilità internazionale è esattamente ciò che non avremo. E’ evidente che, come hanno riconosciuto praticamente tutte le maggiori forze politiche, al Paese dovrà essere comunque assicurato un governo, ma pensare che in questa fase un esecutivo di “salvezza nazionale” o simile variazione sul tema possa avere la necessaria coesione è davvero difficile. Nel momento in cui scriviamo i mercati stanno mostrando il loro disappunto e i loro timori con tutta la violenza che è parte integrante del loro comportamento in un mondo globale e digitalizzato: il cambio tra dollaro ed euro è poco sopra quota 1,30 (vantaggiosa per l’export, molto meno per le importazioni di materie prime ed energia) la borsa sta perdendo il 5 per cento e lo spread tra Btp e Bund che lunedì, quando i sondaggi sembravano segnalare la possibilità di un governo stabile, era sceso fino a 255 punti base, è sopra i 340 punti, con un rendimento del titolo di Stato decennale italiano di nuovo pericolosamente vicino al 5 per cento. A conferma dell’elevatissimo livello di integrazione dei mercati finanziari, anche le altre principali Borse sono in forte calo e gli spread francese e spagnolo rispetto al benchmark tedesco si stanno pericolosamente allargando. Per dirla breve, restando nel bene e nel male tra le prime dieci economie del mondo, la nostra prospettiva di ingovernabilità sta creando problemi non trascurabili anche a molti altri Paesi. Le aste dei titoli di Stato previste questa settimana chiariranno meglio, al di là della reazione a caldo delle Borse, il costo dell’ingovernabilità in termini di maggiori interessi sul debito. A tutt’oggi non si può escludere che lo spread si stabilizzi per molti mesi su livelli decisamente più alti di quelli degli ultimi tempi, e che quindi i conti pubblici debbano essere rivisti alla luce dell’aumento degli oneri a carico del Tesoro. Considerando gli impegni presi a livello europeo, che limitano fortemente (vi sarebbe da dire: per fortuna…) l’autonomia di qualsiasi futuro governo in materia di politica economica, le maggiori spese in oggetto dovranno essere coperte e ciò potrebbe pregiudicare quegli interventi di graduale e moderata riduzione della pressione fiscale che sarebbero stati possibili in uno scenario in cui la discesa dello spread avesse mantenuto la continuità degli ultimi sei mesi. Lo stesso si può dire per l’aumento dell’Iva già previsto per l’estate e al quale difficilmente si potrà rinunciare. E’ chiaro che in teoria un futuro governo potrebbe anche disinteressarsi temporaneamente dello spread e della continuità del risanamento per poi chiedere l’intervento della Bce, previsto nel quadro della nuova normativa salva-stati approvata la scorsa estate con l’entrata a regime dell’Esm (European stability mechanism). Ma deve essere estremamente chiaro che questa opzione, oltre a dilapidare completamente i sacrifici fatti dai cittadini nel corso del 2013, costringerebbe i medesimi a subirne di ben peggiori, perché in nessun caso la Bce sarà disposta ad intervenire senza precisi impegni di rientro finanziario da parte del governo richiedente. L’aspetto paradossale di tutta questa situazione va ricercato nel fatto che, proprio in questi mesi, pur di fronte al perdurare di una estrema debolezza sul fronte della domanda interna e del clima di fiducia delle famiglie, la solidità dell’infrastruttura manifatturiera italiana si è ancora una volta confermata, con un significativo incremento delle esportazioni verso le aree a maggior tasso di crescita (Asia e America) e quelle, come la Germania, le cui economie industriali presentano un più elevato tasso di integrazione e complementarità con la nostra. La ragionevole speranza era che il traino della domanda estera unita ad un graduale recupero del clima di fiducia attraverso una riduzione sostenibile della pressione fiscale potesse produrre una lieve, ma continuativa ripresa della domanda interna. Ora diviene tutto più difficile, ma non impossibile. Il governo che verrà non potrà essere di lungo respiro, essendo sostanzialmente inevitabile un ritorno alle urne in tempi relativamente brevi, ma avrà la responsabilità di garantire la tenuta dell’economia e portare a compimento quelle due o tre riforme che, se fossero state realizzate prima del voto, non avrebbero portato agli attuali livelli la rabbia del corpo elettorale. Senno di poi, ovviamente. Antonio Abate
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