Corruzione: una piaga pericolosa

Trattare in questo momento la problematica, che sarebbe comunque molto delicata, delle ricadute sull’economia italiana delle numerose inchieste in corso su alcune primarie imprese nazionali, non può che essere estremamente rischioso.

La campagna elettorale in corso, sempre più aspra e confusa, esercita infatti l’effetto di un tritacarne che tutto travolge e rischia di far passare per omissione quando non addirittura connivenza qualsiasi ragionamento che si discosti dal giustizialismo più sfrenato mentre, contestualmente, può accadere che il garantismo nei confronti degli indagati venga usato per lanciare attacchi sempre più pesanti alla magistratura, motivati da intenti politici di tutt’altro genere. Basti pensare agli attacchi cui s’è esposto lo stesso Presidente della Repubblica per il solo tentativo di circoscrivere l’uso politico della vicenda Montepaschi, al fine di evitare che la nuova gestione della banca venisse travolta da una indagine che essa stessa ha contribuito ad avviare, e garantire che la polemica tra le forze politiche non finisse per trascinare nel gorgo della sfiducia una istituzione-chiave come la Banca d’Italia.

Napolitano è stato accusato neppure troppo velatamente di voler applicare la mordacchia alla pubblica opinione, quando in un qualunque Paese sarebbe stato ovvio operare in modo tale da evitare che i comportamenti penalmente perseguibili dei vertici di una grande istituzione creditizia potessero degenerare in una delegittimazione dell’intero sistema bancario che, come tutti sanno, basa la sua operatività sulla fiducia e dipende in misura decisiva dalla credibilità internazionale dei suoi protagonisti. Fare di ogni erba un fascio sarebbe stato criminale almeno quanto i comportamenti dei passati vertici di Montepaschi e a ciò si è opposto il Capo dello Stato, rischiando peraltro di essere pesantemente coinvolto in una polemica elettorale ove giocare al “tanto peggio tanto meglio” sembra divenuta la strategia prevalente di alcuni dei contendenti in lizza.

Ciò premesso, che la corruzione sia una pratica dilagante nell’economia del nostro Paese non è mistero per nessuno. E gli effetti di tale fenomeno, soprattutto quando vanno a lambire, se non a chiamare direttamente in causa, i vertici delle imprese italiane più note a livello internazionale, non possono che essere devastanti. Dopo tanto lavoro per rendere credibile il sistema–Paese, ci si deve rassegnare e rendersi conto, come recentemente sottolineato da un esemplare intervento di Antonio Polito sul «Corriere della Sera», che in Italia i capitali esteri non arrivano anche perché sanno che da noi si paga il pizzo, che si può essere scavalcati da un concorrente solo perché gioca sporco e che la trasparenza nei confronti del mercato non è tenuta in gran conto dal nostro capitalismo fatto di relazioni e di appartenenze.

Un Paese dove nelle indagini sul mercato del lavoro si scopre che alle conoscenze personali e familiari è attribuito un peso più rilevante che alle competenze certificate, o dove alla piccola impresa innovativa povera di garanzie reali viene negato il credito mentre ad un gruppo caratterizzato da pratiche gestionali dissennate ma con le entrature giuste (basti pensare a Fondiaria–Sai e ai Ligresti) questo non viene mai fatto mancare. Purtroppo, il contemporaneo coinvolgimento di grandi nomi come Montepaschi, Eni e Finmeccanica in vicende nelle quali la governance è sotto accusa, depone male per il Paese non meno dell’esorbitante debito pubblico. E di fronte a simili eventi è del tutto naturale che all’estero si finisca per domandarsi in che misura ci si possa fidare dell’Italia. Uno spread di credibilità, culturale prima di tutto, più difficile da chiudere di quello sul costo del credito.

Il problema è sistemico, e quindi non esistono soluzioni facili e a portata di mano. Certamente, i rischi di discredito internazionale saranno sempre elevatissimi fino a quando i vertici di grandi imprese strategiche per la competitività del Paese saranno scelti, come avvenuto nel caso di Montepaschi e Finmeccanica, dalla politica e in base a logiche di appartenenza politica. Non basta essere puliti, occorre anche sembrarlo, e quando un manager viene nominato perché “in quota” ad una forza politica piuttosto che all’altra ci sarà sempre la tendenza ad interpretarne, a torto o a ragione l’operato in funzione del padrinaggio di cui s’è potuto avvalere. E quando verrà fuori qualcosa, specie in un momento politicamente delicato come l’attuale, l’inguaribile e autolesionistica schadenfreude italica farà il resto.

Anche sul fronte giudiziario esistono tuttavia cortocircuiti che andrebbero rimossi. In un Paese dove la giustizia “normale” non funziona, dove i tempi biblici dell’azione penale annullano sostanzialmente la sua valenza correttiva e retributiva, la tentazione del giustizialismo è fortissima, e la tendenza della stampa a scambiare sospetti per prove e avvisi di garanzia per condanne passate in giudicato non può essere d’aiuto.

Nello specifico dei casi Eni–Saipem e Finmeccanica, va detto che il reato di corruzione internazionale, cioè la punibilità penale in Italia anche per tangenti pagate all’estero, è stato introdotto nel nostro Paese nel 2000 come recepimento di una convenzione Ocse del 1997 che si ispirava, a sua volta, a una normativa anticorruzione statunitense degli anni Settanta. La normativa americana venne impostata in modo da evitare svantaggi competitivi alle aziende. Negli Usa, infatti, casi come quelli citati sarebbero trattati in modo da non confondere eventuali responsabilità personali di manager e politici se infedeli o corrotti con la vita delle aziende e l’interesse nazionale, fondamentale nei settori dell’energia e della difesa. Nella normativa statunitense non è prevista l’obbligatorietà dell’azione penale, quindi in casi simili, se provati, si procederebbe quasi certamente alla rinuncia all’azione penale a fronte del pagamento di importi concordati e all’adozione di regole per evitare il ripetersi del comportamento sanzionabile. In Italia più volte la Consulta ha suggerito una applicazione “ragionevole” di una norma che, proprio a causa della corruzione dilagante, finisce per far considerare reato anche ciò che all’estero verrebbe interpretato come semplice lobbismo. Ma tant’è.

Antonio Abate

 



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