Obama bis. Intenzioni coraggiose

USA di fronte alle riforme - Foto (C) SIRHadiya Pendleton aveva solo quindici anni. Studentessa modello, majorette della banda della sua scuola, aveva sfilato in occasione della cerimonia di insediamento di Obama per il secondo mandato.

Pochi giorni dopo è stata uccisa da un colpo di pistola nella sua Chicago, la città del presidente. I suoi genitori erano presenti, assieme a quelli dei bambini massacrati poche settimane fa nella scuola elementare di Newtown, nella tribuna del Congresso degli Stati Uniti, ad ascoltare il quinto discorso di Obama sullo Stato dell’Unione, con l’annuncio delle linee guida dell’Amministrazione per il futuro prossimo, tra cui quelle relative alla gun-reform, la battaglia del presidente contro il possesso indiscriminato di armi da fuoco, altamente simbolica del nuovo corso e che vede come capofila Gabrielle Giffords, deputata dell’Arizona ferita durante un comizio all’inizio del 2011 in una sparatoria che provocò sei vittime.

Per lei e per tutte le famiglie funestate dalle innumerevoli stragi endemiche degli States, Obama ha lanciato un monito ai membri del Congresso: «They deserve a vote», «meritano un voto». Un voto per introdurre maggiori controlli, per vietare i caricatori con più di dieci colpi, per mettere al bando le armi da guerra, come Obama aveva già sottolineato in precedenza, citando anche Ronald Reagan, muscolare presidente repubblicano, che aveva a sua volta affermato di non voler impedire ai cittadini americani di andare a caccia o difendere le proprie abitazioni, ma che per fare ciò non era necessario un fucile mitragliatore.

La riforma del commercio delle armi è un qualcosa che Obama ritiene certamente necessario, ma è anche argomento di sicura presa sul lato emozionale dell’opinione pubblica, ideale quindi come grimaldello per iniziare a scardinare il sistema di potere delle lobby, partendo dalla potentissima Nra (National Rifle Association), che riunisce produttori e rivenditori di armi, facendo leva sul consenso popolare determinato dagli ultimi fatti di sangue.

Un fattore determinante, quello dell’appoggio della maggioranza dei cittadini, per tutte le riforme che l’inquilino della Casa Bianca intende porre in atto nel proprio secondo mandato, nell’ottica generalizzata di una maggiore equità e giustizia sociale a favore della middle class e delle fasce più povere, ben consapevole delle difficoltà che gli verranno opposte. Infatti, dal momento della sua rielezione Obama ha completamente cambiato registro, abbandonando gli attendismi e le mediazioni che lo avevano portato a barcamenarsi in attesa della rielezione, e sta decisamente puntando sulla propria idea di America, anche a costo di entrare in rotta di collisione con l’opposizione repubblicana e andare allo scontro frontale con i gruppi di potere che controllano il potere finanziario e coltivano idee ultraliberiste opposte alle sue. Consapevole del rischio di fallire alcuni obiettivi, ma determinato a mettere bene in chiaro di fronte all’opinione pubblica ciò che vuol fare, e a individuare i responsabili di eventuali insuccessi.

Cruciale in questo senso il piano per far ripartire economia e occupazione, basato su massicci e onerosi interventi pubblici di stampo keynesiano, volti a mettere in cantiere imponenti lavori di ristrutturazione infrastrutturale, ma anche indirizzati verso la ricerca, i servizi sociali per le famiglie più svantaggiate e il recupero del potere di acquisto dei lavoratori, da ottenere attraverso il sistema più semplice e immediato, ma al tempo stesso meno preso in considerazione da economisti e classi dirigenti: l’aumento dei salari.

Una serie di misure che hanno registrato, curiosamente, il plauso dell’Unione europea, che invece nell’ultimo vertice ha ancora ribadito la sua politica di segno diametralmente opposto, fatta di tagli e attenzione spasmodica alla quadratura dei bilanci, nonostante i risultati recessivi ormai conclamati: forse i tecnocrati di Bruxelles sperano che le possenti iniezioni di liquidità oltre Atlantico abbiano effetti benefici anche sul Vecchio Continente?

In ogni caso, è chiaro che Obama appare più interessato a garantire lavoro e benessere ai propri cittadini, piuttosto che a contenere un debito pubblico in vertiginosa impennata, ai limiti della stabilità finanziaria mondiale. In certo modo un azzardo notevole, specialmente con le incombenti insidie del famigerato fiscal cliff, disinnescate all’ultimo istante all’inizio dell’anno, ma le cui problematiche sono state in gran parte solo rinviate, e si ripresenteranno a fine febbraio. In sostanza, il decadere di privilegi e sgravi fiscali dovrebbe garantire maggiori introiti alle casse federali, ma al tempo stesso porterebbe aggravi ai bilanci di famiglie e imprese, col rischio di innescare una nuova spirale depressiva.

Ma il presidente appare convinto di potercela fare e, per la verità, anche se il debito è notevolmente cresciuto nel suo precedente quadriennio, va detto che molta responsabilità va imputata al suo predecessore, George W. Bush, che lo aveva già sostanzialmente raddoppiato. Con una differenza non da poco: Bush ha speso miliardi in due guerre fallimentari, in Afghanistan per catturare Bin Laden (poi giustiziato dalle truppe speciali di Obama anni dopo in Pakistan) e in Iraq, per neutralizzare fantomatiche “armi di distruzione di massa” rivelatesi inesistenti. Al contrario, l’attuale presidente ha elargito miliardi per aumentare i livelli di welfare delle classi meno abbienti e per salvare migliaia di posti di lavoro. Emblematico il caso dell’industria automobilistica, sovvenzionata generosamente, tanto da modificare in modo determinante gli equilibri elettorali nel popoloso Stato dell’Ohio, nonché le politiche industriali della multinazionale Fiat-Chrysler, il cui vertice appare ormai fatalmente sbilanciato verso Detroit, a danno di Torino e dell’Italia.

Ma come pensa di fare Obama per quadrare i conti ed evitare gli strali delle agenzie di rating e i timori dei mercati? Con un governo né statalista né liberista, bensì smart, intelligente, cioè capace di individuare nuove priorità. In primis, con una netta diminuzione delle spese militari: dopo aver chiuso il fronte iracheno, ora si appresta ad uscire anche dal logorante conflitto afgano, richiamando metà delle truppe quest’anno e il resto entro il 2014. In programma anche un nuovo negoziato coi russi per ridurre ulteriormente le testate atomiche. Grande apprezzamento e sostegno, poi, alle aziende che stanno rimpatriando la produzione e contestuale penalizzazione per quelle che delocalizzano. Parallelamente, il progetto di un riordino delle politiche migratorie teso a regolarizzare e richiamare forza lavoro straniera anche ad elevata qualificazione (come ha scritto il quotidiano «Usa Today», c’è già una bozza di proposta per arrivare a concedere, in otto anni, la cittadinanza agli immigrati illegali, ma la possibile sanatoria di 11 milioni di clandestini è stata bocciata dai repubblicani). Ma soprattutto una svolta decisa verso le energie rinnovabili, viste con una triplice funzione: creazione di posti di lavoro, scelta strategica per il conseguimento dell’autosufficienza energetica, passaggio ineludibile per la lotta al surriscaldamento globale e ai cambiamenti climatici. Il tutto da finanziare con uno sbilanciamento dell’imposizione fiscale a carico dell’economia basata sui combustibili fossili. Anche qui, per piegare le resistenze delle lobby petrolifere, Obama ha buon gioco nello sfruttare l’onda emotiva provocata dagli ultimi eventi climatici distruttivi, in particolare l’uragano Sandy che aveva devastato la costa atlantica proprio nell’ultimo periodo della campagna elettorale.

Marginali invece gli accenni alla politica estera, in un discorso indirizzato soprattutto alla nazione e ai suoi problemi interni, forse per specifica volontà di parlare delle questioni percepite come maggiormente pressanti dal popolo americano, o forse il segno di una grande potenza ripiegata su sé stessa dai colpi della crisi, assai lontana dai fasti economici e dall’arroganza imperialista ostentati ai tempi del crollo dell’Urss, avversario storico per eccellenza. Problematiche che il presidente dovrà comunque affrontare a breve, nel prossimo viaggio in un Medio Oriente segnato dal perdurare della crisi siriana, dalle brame belliche di Israele, smanioso di bombardare l’Iran, e dalle legittime rivendicazioni del popolo palestinese, che intravede finalmente la possibilità di costruire un proprio stato sovrano.

Riccardo Graziano

 

 



SIR | Avvenire.it | FISC

PRELUM Srl - P.I. 08056990016