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La fede e un nobile coraggioLa prima cosa che ci è venuta in mente è stata questa: che cosa farà dal 28 febbraio, ore 20, il nuovo cardinale Joseph Ratzinger? Sappiamo dove sarà fisicamente, perché lo ha anticipato padre Lombardi nella sala stampa vaticana: passerà un po’ di tempo a Castel Gandolfo, poi tornerà nella Santa Sede romana, in un convento di suore di clausura circondato dal verde di un orto-giardino. Naturalmente pregherà, e lo farà nello spirito con cui l’ha fatto in tutta la sua lunga vita sacerdotale, e poi da autorità ecclesiale e infine da Sommo Pontefice. Lo farà nel silenzio di una cella monacale, di una cappella, di una comunità religiosa femminile. Ma riguardo alla Chiesa, ai fedeli, al mondo, che cosa farà? E’ una domanda semplicemente terribile, se la si misura con quanto papa Ratzinger ha fatto in questi sette e più anni di pontificato per la Chiesa, i fedeli e il mondo. Nelle ore immediatamente seguite all’annuncio personale delle sue dimissioni davanti a un gruppo di cardinali esterrefatti, ne abbiamo sentite e lette di tutti i colori, e soprattutto, nella comunità laico-laicista, abbiamo preso atto di una “verità” ben poco teologica: che la sua rinuncia al potere petrino significa in piena realtà «l’ingresso della Chiesa e della fede cattolica nella modernità». E’ il massimo dei soprusi che si possano commettere, sia pure in termini gentili e “ragionevoli”, contro un Papa che ha fatto della sua missione il compito irrinunciabile di accordare la Fede con la Ragione, attraverso la Verità, senza esitazioni, né compromessi, né disinformazione epocale, con molto coraggio e principalmente nei confronti della Storia, del mondo e della Chiesa. Per provarlo, basta leggere la premessa suo libro “Gesù di Nazaret”, là dove spiega come avesse sentito il dovere di affrontare l’esistenza umana di Cristo andando oltre il “metodo storico-critico” utilizzato dalla storiografia novecentesca sul Redentore; un metodo che non teneva conto di quanto il Gesù dei Vangeli abbia contato, con la sua Parola, nell’opera decisiva di confermare agli uomini del suo tempo e per quelli in avvenire l’origine divina delle Sacre Scritture. «Solo se era successo qualcosa di straordinario, se la figura e le parole di Gesù avevano superato radicalmente tutte le speranze e le aspettative dell’epoca, si spiega la sua crocifissione e si spiega la sua efficacia. (…). Come mai dei raggruppamenti di sconosciuti poterono essere così creativi, convincere e in tal modo imporsi? Non è più logico, anche dal punto di vista storico, che la grandezza si collochi all’inizio e che la figura di Gesù abbia fatto nella pratica saltare tutte le categorie disponibili e abbia potuto così essere compresa solo a partire dal mistero di Dio? Naturalmente, credere che proprio come uomo egli era Dio e che abbia fatto conoscere questo velatamente nelle parabole e tuttavia in un modo sempre più chiaro, va al di là delle possibilità del metodo storico. Al contrario, se alla luce di questa convinzione di fede si leggono i testi con il metodo storico e con la sua apertura a ciò che è più grande (come ha fatto Joseph Ratzinger, ndr) essi si schiudono per mostrare una via e una figura degne di fede». Ecco, è questa intelligenza nel capire più in profondità la storia la vera caratteristica umana del Papa dimissionario. Lo ha fatto con tutto ciò di cui ha parlato, senza paura: basti pensare all’accenno alla realtà storica dell’islam fatto il 12 settembre del 2006 a Ratisbona, quando ricordò il colloquio del 1400 fra l’imperatore bizantino Manuele II Paleologo e un sapiente persiano, in cui il primo disse: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo e vi troverai soltanto cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere la fede con la spada». Niente di più, una citazione necessaria senza commenti né tantomeno partecipazione politico-culturale; ma bastarono poche parole storicamente innegabili per suscitare una reazione durissima nel mondo musulmano. Non cercheremo di entrare nei sentimenti del Papa che “rinuncia”, ma non possiamo non chiederci quanto abbia sofferto prima della dolorosa dichiarazione di lunedì scorso, non per caso Giornata del malato in coincidenza con la festività della Madonna di Lourdes. Basta sfogliare le cronache giornalistiche della “rinuncia” per vedersi ripetere per l’ennesima volta in questi ultimi anni la lista dei “mali” veri o presunti della Chiesa (dagli scandali della pedofilia ai “buchi finanziari” dello Ior, alle occulte rivalità fra cardinali, allo spionaggio interno dei “Vatican files”…) fino a immaginare uno scontro fra la “pastoralità” e l’Istituzione all’interno della Chiesa, che rischierebbe di crollare per l’eccesso di potere gerarchico, ma viene salvata nei secoli dall’opera continua, generosa, evangelica dei sacerdoti, dei monaci, dei gruppi sociali, di uomini e donne del laicato cattolico onnipresente. In più, dalla morale teologico-naturale di Joseph Ratzinger prima prefetto per 24 anni del Sant’Ufficio e poi Pontefice, una morale che riassume, conferma e diffonde norme bibliche a proposito di vita, di sessualità, di morte, dando loro il valore di princìpi “non negoziabili”, si fa discendere un conflitto con la cultura laica di derivazione illuministica, che sembra non rendersi conto di quanto siano fallite le proprie ideologie, capitalistico-borghesi o marxiste-classiste, nel corso degli ultimi due secoli. Un conflitto in cui Ratzinger coglie il “relativismo” laicista come l’espressione di un diritto universale a proclamare i diritti individuali come legittimi e incorreggibili, quando nella realtà non se ne misurano i danni che portano alla società umana nel suo complesso, come li vediamo esplosi nella crisi che il mondo sta attraversando. Ma adesso basta con i riferimenti alle “amarezze” e alle “debolezze” fisiche e psicologiche con cui papa Ratzinger ha dovuto confrontarsi fino a ieri, a prima della “rinuncia”. Quello che importa oggi è intendere e sottolineare a nostra volta, per quel poco che ci compete, l’umiltà, il coraggio, la forza d’animo con cui questo anziano “servo dei servi di Dio” ha deciso di sopportare un’altra croce: quella di continuare a vivere al servizio del Signore nell’angolo opposto a quello a cui era abituato da tanti anni. Anziché nelle cerimonie pontificali, a Roma e nel mondo, nel silenzio claustrale, nella preghiera, nello studio della storia e anche del presente, senza interloquire con quello che il prossimo Papa farà e dirà, ma nello spirito della Caritas in veritate della sua enciclica. Una “carità” nei confronti della Chiesa e del mondo, illuminata da una Verità di cui egli è stato custode, indagatore e propagatore per tutta la vita. Beppe Del Colle
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