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La fragilità confessata lo fa grandeNon c’è voluto molto perché la notizia delle dimissioni di papa Benedetto XVI fosse rilanciata da tutte le agenzie di stampa, dai quotidiani on line e dalle redazioni televisive. Dopo solo poche ore era possibile trovare su youtube il video delle dimissioni, e ascoltare il suo annuncio, pronunciato in latino. Una voce pacata, ma consapevole della gravità di ciò che stava dicendo. Una simile notizia accende le passioni ed è bastato fare un giro in Rete per cogliere come nessuno abbia mancato il colpo. Dai commenti twittati in poche parole, agli interventi più lunghi; da quelli di apprezzamento per il gesto, a quelli dimentichi non solo della caritas, ma anche di ogni pietas. Negli anni del suo pontificato, Ratzinger ha suscitato molti apprezzamenti e molte critiche. In ogni caso non è passato nell’indifferenza. Penalizzato dal non essere affatto telegenico, e dal non essere figura immediatamente empatica, in tutti questi anni Benedetto XVI si è sempre dovuto misurare con l’ombra del suo predecessore. Tanto Giovanni Paolo II riusciva a irrompere con la sua corporeità, sia nel momento della potenza fisica sia in quella della debolezza, tanto Benedetto XVI ha nella parola la sua cifra. Anche nel suo annuncio delle dimissioni sono le parole che illustrano il gesto. Leggendo l’annuncio l’attenzione corre subito alla parola «rinuncia» (inutile cercare «dimissioni»), ma le parole chiave del testo sono nel campo semantico del servizio e della fragilità. Ratzinger ha sempre vissuto il ministero petrino a lui affidato come servizio, non come potere. Lì dove ha esercitato i poteri che il ministero gli conferiva l’ha sempre fatto nella logica del servizio dell’autorità. In questi anni di pontificato non ha mai cessato di stigmatizzare il carrierismo ecclesiastico, o la mondanizzazione degli apparati della Chiesa. La conclusione dell’annuncio dell’11 febbraio conferma questo stile di servizio con cui Ratzinger comprende se stesso: «Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio». È troppo presto, a meno di non essere molto presuntuosi, per pretendere di esprimere già ora valutazioni sul suo pontificato. E questa propensione, potremmo definirla incontinenza verbale, è l’aspetto più stucchevole delle ore successive di “commenti a caldo”. Un atteggiamento più prudenziale invita a considerare dunque l’altro aspetto del discorso del Papa, quello delle parole appartenenti al campo semantico della fragilità. Il Papa afferma che «dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». In seguito riconosce che «nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato». Forse siamo troppo abituati a corpi plastificati di potenti che ostentano fastidiosamente la loro vigoria fisica anche a dispetto dell’età che avanza per riconoscere la grandezza di tale ammissione di fragilità. Il Papa è «ben consapevole della gravità di questo atto», dove per «gravità» (ponderis) è da intendersi importanza, non colpevolezza. Eppure, ciò che desta rispetto è la dignità di un uomo che riconosce la propria impotenza di fronte a un compito che ora lo soverchia. In un mondo bloccato dal regime gerontocratico che lo domina, questo gesto del Papa assume un valore di estrema rilevanza umana. Al cospetto di un simile gesto, spiegato con tali lucide parole, il giudizio deve cedere il passo all’ammirazione, e forse anche alla compassione. Quando un uomo assume e ammette pubblicamente la propria fragilità, con grande umiltà, senza menzogna e senza nostalgia per una vigoria ormai vulnerata dagli anni che passano (che sono un dato, non una colpa), si ode risuonare la corda della grandezza, non quella della debolezza. Marco FRACON
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