Dossetti, l'indimenticabile

Professorino, «comunistello di sacrestia», leader carismatico, cattolico integrista, politico lungimirante, riformatore visionario: la vicenda politica di Giuseppe Dossetti ha suscitato in passato appassionati e contrapposti giudizi da parte dei suoi sostenitori e dei detrattori, tanto da lasciare un’immagine deformata di questo protagonista dell’Italia del Novecento.

E ancora oggi le polemiche non si placano, a cento anni dalla sua nascita. Le recenti critiche espresse sul settimanale diocesano di Bologna, la replica del superiore della comunità monastica fondata da Dossetti e le ampie rievocazioni apparse sui giornali mostrano un rinnovato interesse per il ruolo svolto da questo anomalo personaggio della vita politica e religiosa italiana. E questo accade, ora, non casualmente.

Il profilo politico del giovane docente di diritto canonico originario di Reggio Emilia, eletto all’Assemblea costituente nel 1946 nelle fila della Democrazia cristiana e competitore di De Gasperi per la guida del partito, appare infatti decisamente distante dai connotati di una parte notevole della classe dirigente dell’Italia repubblicana, sia per la sua competenza e la dirittura morale, sia per l’appassionato coinvolgimento nelle vicende del suo tempo. Non è però soltanto questo aspetto, a tratti nostalgico, ad alimentare l’interesse per Dossetti. La sua parabola politica, iniziata con la partecipazione ai Comitati di liberazione nazionale durante la Resistenza, richiama l’interrogativo sempre attuale circa la possibilità di «pensare politicamente» (per usare l’incisiva espressione del suo amico Giuseppe Lazzati, anch’egli tra i costituenti), vale a dire quale spazio esista per proposte politiche eticamente ispirate, concretamente realizzabili e capaci di guardare al futuro, in grado di offrire risposte efficaci e giuste al governo degli affari pubblici.

Quanto un percorso simile fosse colmo di ostacoli era apparso immediatamente evidente allo stesso Dossetti, anche perché il punto di partenza era impegnativo quanto l’obiettivo da raggiungere. Il nodo da affrontare si era già delineato all’inizio degli anni Quaranta, quando, giovane studioso all’Università cattolica di Milano, era stato coinvolto con altri in una riflessione serrata sulla crisi della civiltà, drammaticamente disvelatasi con lo scoppio del conflitto mondiale, e sul ruolo che i credenti dovevano assumere in essa. Secondo Rossetti, per comprendere la realtà era necessario considerare «la fondamentale catastroficità della situazione civile e la criticità del mondo ecclesiale e la convinzione che esistano dei rapporti fra i due termini». Paolo Pombeni, storico dell’Università di Bologna, nella sintetica e acuta analisi contenuta nel volume «Giuseppe Dossetti. L’avventura politica di un riformatore cristiano» (edito ora da Il Mulino), sostiene, infatti, che Dossetti entra in politica «perché ritiene che questa sia la chiamata specifica della sua responsabilità, come membro di una Chiesa che gli è apparsa in affanno di fronte alla modernità, così come quella modernità è stata da lui letta quale forma di crisi rispetto alla capacità dell’uomo di rispondere al suo bisogno di elevazione nel quadro di un contesto comunitario».

La capacità di Dossetti di dialogare con esponenti di forze culturali distanti dalla sua formazione saldamente cattolica (tra cui molti comunisti e laici) nasceva proprio dalla comune sensibilità che si radicava in questa lettura “tragica” della realtà, che caricava il suo impegno politico di connotati ultimativi. Per la stessa ragione, le incomprensioni con Alcide De Gasperi, sfociate spesso in duri confronti nel partito e in Parlamento, soprattutto dopo le elezioni del 1948 (alle quali Dossetti si presentò «per obbedienza» a Pio XII), erano provocate da una radicale diversità di prospettiva.

Per il segretario democristiano e capo del governo, attraverso la politica era possibile arrivare a un miglioramento complessivo della società, compiendo scelte che, pur attingendo a un insieme di valori solidaristici e del personalismo cristiano, pragmaticamente tenevano conto dei condizionamenti internazionali e dei vincoli delle forze economiche. Per Dossetti, eletto vice segretario della Dc nel 1950, il consenso elettorale di massa investiva il partito di un compito epocale nella storia d’Italia, vale a dire la realizzazione di un programma di grandi riforme sociali ed economiche attraverso le quali la democrazia apparisse non soltanto un insieme di procedure, ma si dispiegasse come sostanziale partecipazione dei cittadini al governo del Paese. La coinvolgente capacità di trascinamento di molti giovani da parte di Dossetti e il ruolo di pungolo delle scelte del governo fecero di lui un punto di riferimento osservato sempre più con timore e sospetto, sia nel partito, sia in autorevoli ambienti vaticani, dove era giudicata molto più rassicurante l’ossequiosa presenza dei Comitati civici di Luigi Gedda che la puntuale capacità di critica e di proposta dei gruppi vicini al politico reggiano.

Dossetti, dopo tese discussioni con i democristiani a lui più vicini (tra cui, oltre a Lazzati, vi erano Giorgio La Pira e Achille Ardigò), si dimise dalla Camera dei deputati nel 1951, convinto della insostenibilità della sua linea che collideva con la posizione giudicata sempre più ambigua della Dc. Da una parte vi erano i condizionamenti provenienti dalla perdurante «ipoteca vaticana»; dall’altra, vi erano i vincoli posti dagli ambienti industriali, che, come precisa Pombeni, rendevano evidente ai dossettiani che «la Dc era un forza politica che si reggeva su equilibri ben più complicati di quelli esistenti fra le diverse ideologie presenti nel mondo cattolico».

Anche se l’«ideologia dossettiana» si dissolse con l’uscita dalla scena parlamentare dell’esponente reggiano e la dispersione del gruppo di uomini e donne che l’avevano sostenuta (pur con significative differenze al suo interno), due altre occasioni ributtarono Dossetti nell’agone politico, nonostante avesse ormai maturato la sua vocazione monastica e, poi, sacerdotale. Nel 1956, anche in questo caso per spirito di obbedienza a una sollecitazione ecclesiastica (questa volta del cardinale Giacomo Lercaro), si candidò alle elezioni amministrative di Bologna per contendere al comunista Giuseppe Dozza la guida della città: nonostante le energie riversate nella campagna elettorale, uscì sconfitto, com’era prevedibile, avendo però ottenuto l’obiettivo di rendere evidente alla Chiesa quanto l’idea della restaurazione di una “società cristiana” da realizzare attraverso il cattolicesimo politico fosse una letale illusione nell’Italia ormai secolarizzata. La battaglia da condurre come “minoranza cattolica”, insieme ad altre forze, doveva puntare alla realizzazione dei valori della Costituzione repubblicana «frutto particolarmente positivo e felice della civiltà occidentale», come ribadì nei suoi numerosi discorsi pubblici nei mesi immediatamente precedenti la sua morte, avvenuta nel 1996.

Dopo anni di assenza dal dibattito politico, i suoi interventi «fuori campo», come li definì egli stesso, volevano richiamare l’urgenza della lotta contro i tentativi di stravolgimento della Carta costituzionale provenienti dalle forze politiche di destra, che minavano, prima ancora che le istituzioni dello Stato, la tenuta dei legami di solidarietà e di libertà nella società italiana. Di fronte alla «seduzione ingannatrice» delle dichiarazioni falsamente risolutive e dei proclami demagogici, le parole di Dossetti rimangono un appello inesausto a restare vigilanti.

Marta Margotti

 



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