Urne a sorpresa: Israele nel caos

Parità. Dopo le elezioni israeliane la Knesset (il Parlamento di Tel Aviv) vede un perfetto equilibrio fra le formazioni riconducibili al centro-destra e quelle riferibili al centro-sinistra: sessanta deputati a testa sui 120 totali, e una situazione di stallo che crea non pochi problemi per la costruzione del nuovo esecutivo.

Naturalmente, la situazione in Israele ha ovvi riflessi sul resto del Medio Oriente e, conseguentemente, vista la centralità strategica di quest’area, anche sul resto del mondo. E a seconda di quali alleanze verranno poste in essere per costruire il governo del Paese, si prospettano scenari differenti e contrapposti, in alcuni casi non privi di elementi di preoccupazione. Ma andiamo con ordine.

Anzitutto occorre registrare il dato numerico uscito dalle urne, che vede in testa Likud-Israel Beytenu, la formazione guidata dal premier uscente Benjamin “Bibi” Netanyahu, con 31 seggi, undici in meno rispetto alla precedente consultazione. A ruota troviamo la grande sorpresa di queste elezioni, Yair Lapid, volto noto della televisione, fascinoso e abile nel parlare alla “pancia” della classe media israeliana colpita anch’essa dalla crisi globale, che ha portato il suo partito di ispirazione centrista Yesh Atid («C’è un futuro») a conquistare 19 seggi. A seguire i laburisti a quota 15, due formazioni di destra e di ispirazione religiosa con 11, una delle quali, Focolare ebraico, espressione dei coloni, quindi su posizioni decisamente oltranziste, ancora un partito di destra a 7, la sinistra radicale con 6, come l’altra lista di centro che fa capo all’ex ministro degli esteri Livni, 5 e 3 seggi alle due formazioni arabe, infine 4 a Hadash e solo 2 a Kadima, che in precedenza era il partito di maggioranza relativa.

Questa serie di percentuali frammentate mette in evidenza due fattori: primo, che il vincitore nominale della tornata elettorale, nonché premier in pectore Netanyahu, esce parzialmente sconfitto dalle urne, almeno rispetto alle aspettative di plebiscito popolare che coltivava; secondo, che nella formazione della coalizione destinata a governare il Paese l’aritmetica conterà almeno quanto l’affinità di programma. In ogni caso, numeri alla mano, Netanyahu è l’unico in grado di formare una maggioranza, e ha quindi ricevuto dal presidente israeliano Shimon Peres l’incarico di formare l’esecutivo, con il quale raggiungerà il terzo mandato, dopo quelli ricoperti in precedenza fra il 1996 e il 1999 e nella legislatura appena trascorsa. Non essendo una novità, è possibile dunque riferirsi a quanto ha già fatto in passato, per provare a ipotizzare quali saranno le linee guida della sua azione governativa.

Esponente del Likud, il partito conservatore, arriva per la prima volta alla guida dell’esecutivo poco tempo dopo il tragico assassinio di  Yitzhak Rabin, (ucciso da un membro dell’estrema destra israeliana) in un periodo funestato da numerosi attacchi terroristici palestinesi che minano la credibilità del successore, il laburista Shimon Peres, lo stesso che oggi, da presidente, gli ha conferito il nuovo mandato. Il suo approccio da “duro” rassicura maggiormente un’opinione pubblica terrorizzata, che vede in Netanyahu l’unico in grado di garantire la sicurezza, tuttavia la sua politica muscolare provoca un sostanziale stallo nelle trattative di pace coi palestinesi e non riscuote grandi simpatie fra i vicini mediorientali.

All’epoca, durante un viaggio nella confinante Giordania, avevamo registrato l’irritazione della popolazione locale, che stigmatizzava il fatto che Israele captasse i quattro quinti delle acque del Giordano, la maggiore fonte di acqua dolce della zona, lasciando a secco i giordani stessi, i quali auspicavano la presenza di un leader “più ragionevole” a Tel Aviv. In effetti, Netanyahu viene sconfitto alle successive consultazioni, e rimane in secondo piano fino alle elezioni del 2009, quando il partito centrista Kadima ottiene la maggioranza relativa ma non riesce a formare un esecutivo. È a questo punto che Netanyahu diventa premier, stringendo un patto con Israel Beytenu, formazione di estrema destra il cui fondatore e leader Avigdor Lieberman viene nominato ministro degli Esteri.

È questa la formazione che ha guidato l’ultima legislatura, significativamente racchiusa fra le operazioni militari “Piombo fuso” del 2009 e “Colonna di fumo” dello scorso dicembre, e che dovrebbe rappresentare il nucleo della  “coalizione più ampia possibile” che ora Netanyahu vorrebbe mettere insieme per governare il Paese, costretto a fare i conti con la frammentazione dei seggi della Knesset. Le opzioni possibili sono sostanzialmente tre, e prospettano scenari assai differenti, in alcuni casi preoccupanti.

La prima è un’alleanza con tutto ciò che sta alla sua destra (nazionalisti, integralisti religiosi, ortodossi di stretta osservanza, coloni dei territori occupati) con ripercussioni fatali sui precari equilibri mediorientali: un simile esecutivo semplicemente azzererebbe ogni prospettiva di dialogo coi palestinesi e renderebbe assai concreto il rischio di un conflitto militare con l’Iran, alzando la tensione nell’area a livelli esplosivi e alienando a Israele l’appoggio della comunità internazionale, Stati Uniti in testa. Ad esorcizzare una simile eventualità dovrebbe tuttavia provvedere la matematica: una coalizione siffatta arriverebbe alla metà esatta dei seggi, e difficilmente riuscirebbe a imbarcare qualcun altro che gli faccia da stampella per reggere la maggioranza.

Altra soluzione, un governo di grande coalizione, che coinvolga centristi e laburisti: soluzione improbabile, perché all’elevato numero di seggi a disposizione farebbe da contraltare un’insanabile divergenza di vedute su molte questioni fondamentali, come lo stesso Netanyahu ha già lasciato intendere. Resta dunque lo spiraglio dell’alleanza con Yair Lapid, grande sorpresa elettorale: soltanto un anno dopo la fondazione del suo partito centrista, Yesh Atid si presenta come vero trionfatore e ago della bilancia degli equilibri parlamentari, e non a caso Netanyahu ha avviato con lui le prime consultazioni. Lapid, giunto al successo grazie al suo approccio “populista” che ha fatto grande presa sulla classe media israeliana, ha posto come condizione la ripresa del dialogo coi palestinesi, sostanzialmente interrotto dalla precedente amministrazione, e molti commentatori vedono in lui il nuovo potenziale ministro degli Esteri. Ma questo lo pone in rotta di collisione col titolare uscente del dicastero, il “falco” Lieberman, grande sponsor dei recenti bombardamenti su Gaza e colonna portante della coalizione guidata da Netanyahu, che senza il suo appoggio collasserebbe. In più, il numero di seggi a disposizione non sarebbe comunque sufficiente, e la necessità di rimpolpare l’esecutivo acuisce i problemi di spartizione del potere.

Giri di poltrone che travalicano i confini del Parlamento e della nazione per riverberarsi su tutto il Medio Oriente: non dimentichiamo che Netanyahu ha comunque sottolineato la sua ferma intenzione di «impedire all'Iran di dotarsi di armi nucleari», provocando ancora una volta l’irritazione del presidente Usa Obama, che già non nutre grande simpatia nei suoi confronti, e che lo stesso Lapid considera come acquisite le colonie della Cisgiordania, questione spinosa nel confronto israelo-palestinese.

Difficile dunque prevedere gli sviluppi della costruzione dell’esecutivo, in equilibrio fra le annose tensioni internazionali e le non meno rilevanti problematiche interne, prima fra tutte la crisi economica che anche in Israele sta erodendo il benessere della classe media, colpita dai tagli allo stato sociale e dall’emergenza-casa. Argomenti che sarebbero molto più nelle corde dei laburisti, favorevoli a un programma di aiuti statali più incisivo, ma che Netanyahu vuole escludere dai giochi. Una situazione assai complessa, la cui evoluzione inciderà parallelamente dentro e fuori i confini di Israele.

Riccardo Graziano



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