Uscire dalla tempesta

Se si desse retta soltanto ai quotidiani di questi giorni e alle loro cronache dedicate alla confezione e alla presentazione delle liste dei candidati alle elezioni del 24/25 febbraio, ci sarebbe di che disperarsi sulla sorte futura della democrazia in Italia: da quelle alluvioni medianiche di fatti, controfatti, polemiche interne ai partiti, minacce, ritorsioni, storie antiche di anni, corruzioni vere o presunte, e così via, potrebbe infatti nascere soltanto, fra un mese, un forte astensionismo, un «no» alle urne o anche solo tante schede bianche.

E con questo, addio a una democrazia che, bene o male, in questo Paese ha funzionato per mezzo secolo: la pronosticata “terza Repubblica” nascerebbe nell’opinione pubblica nazionale, fortemente depoliticizzata, ben diversamente da come la immagina il gruppo che ha accompagnato più da vicino il “governo dei tecnici” e ha convinto il suo leader a candidarsi attraverso una “scelta civica” puntata a presentare alla Camera dei deputati una lista senza nessun parlamentare in corso, presentabile o impresentabile che fosse.

Invece, siccome la fiducia è un elemento indispensabile per il mantenimento di un sistema democratico, ci sembra più utile, sensato e necessario rivedere il presente attraverso una lente meno ideologica e più pragmatica. Dunque, accettiamo le liste che dalle ore 20 di lunedì 21 gennaio sono state presentate, come da legge, ai tribunali per ottenerne la definitiva approvazione. Accettiamole tutte, anche e soprattutto quelle del Popolo delle libertà, che sono state le più discusse, anche drammaticamente, in quasi tutte le circoscrizioni, a cominciare da quelle della Campania, dove all’ex coordinatore regionale del partito e sottosegretario con il governo Berlusconi, Nicola Cosentino, è stata negata la candidatura; così come in altre regioni al senatore Dell’Utri, cofondatore di Forza Italia dopo la lunga amicizia con il Cavaliere, e ad altri politici o amministratori pubblici giudicati “impresentabili” per varie ragioni, compresa la vicinanza con le organizzazioni criminali mafiose.

I commenti dicono che la scelta di questa “purificazione” delle liste sia stata soprattutto opera di Berlusconi, che ha dato retta ai sondaggi e ha capito che, ripulito da quei nomi, il Pdl sarebbe almeno parzialmente ripartito verso percentuali meno umilianti e dunque più prossime a quelle dei presunti vincitori delle elezioni (a cominciare dal Pd) e soprattutto a quelle del nuovo competitore per il potere, Mario Monti.

Ma quello che non si può negare è che la “pulizia” berlusconiana si sia fatta accompagnare, grazie alle pressioni interne al partito attraverso la sua classe dirigente, da una “occupazione” dei posti di capolista in molte circoscrizioni da parte di “paracadutati” da altre regioni, magari lontane, a costo di “offendere” gli elettorati locali e i loro conosciuti e sperimentati rappresentanti negli enti locali e/o in Parlamento. Di qui le “uscite” dal partito, la creazione di liste nuove, come “I fratelli d’Italia” di Crosetto, Meloni, La Russa e Ghiglia, le fratture fra ex-forzisti ed ex-aennini, che Berlusconi può considerare comunque come disturbatori non definitivi, nel senso che se otterranno qualche parlamentare non lo schiereranno contro il Pdl, a cose fatte nelle nuove Camere.

Certo, non sono mancate reazioni comprensibili come quella manifestata a Torino da due componenti cattolici dei Consigli (uno regionale e uno comunale) eletti con il Pdl, Giampiero Leo e Silvio Magliano, che si sono detti «molto delusi» in quanto «politici di cultura cattolico-popolare e riformista» e «sia dal punto di vista della coerenza con i principi e i valori del Partito popolare europeo, sia dal punto di vista della rappresentanza territoriale, che esce fortemente penalizzata». Una protesta che pensiamo debba essere stata motivata fra l’altro dalla scelta di candidare in Piemonte, ad esempio, l’ex radicale Capezzone, ”paracadutato” da Roma.

Ma se il centro-destra soffre, soprattutto a causa del concetto personalistico del potere che gli ha conferito il berlusconismo e che gli fa correre il rischio di diventare a sua volta “giustizialista” (paradossalmente, visto che il suo leader non si stanca di ripetere di essere egli stesso vittima da anni di una vera e propria persecuzione da parte di una magistratura «comunista») neanche il centro-sinistra sta bene in salute.

Lo dimostrano due fenomeni paralleli: la crescente difficoltà di Bersani a mantenere il consenso dei “progressisti” di sinistra, in cui convivono fra l’altro laici e cattolici democratici eredi dell’Ulivo prodiani, insidiati dalla “sinistra estrema”; e la sopravvenuta polemica fra le due componenti di questa forza minoritaria ma minacciosa, i vendoliani e gli “ingroiani”. Sia Vendola sia Ingroia possono raccogliere insieme una quantità di voti in grado di negare al Pd la vittoria al Senato, dove il porcellum chiede l’8 per cento dei voti per assegnare il premio di maggioranza agli eletti dei singoli partiti: il che significherebbe naturalmente nessun senatore a Vendola o a Ingroia, ma anche il destino di minoranza al centro-sinistra, obbligandolo se non altro a un accordo oggi del tutto problematico con la lista della “Scelta civica” montiana (ammesso che il “professore” superi a Palazzo Madama la fatale soglia dell’8 per cento) oltreche con l’Ud e il Fli (anche qui, nel caso che Casini e Fini non rimangano al disotto di quel limite).

Detto tutto questo, avremo tempo, nei prossimi numeri, di fornire qualche opinione meno “politicante” e istituzionale, ma più concreta sui programmi dei partiti, sulle cose che più interessano i cittadini elettori: il lavoro, soprattutto per i giovani, la disoccupazione, le tasse, la lotta all’evasione fiscale e alla corruzione, l’istruzione, i diritti delle famiglie (quelle vere, fondate sull’unione matrimoniale fra uomo e donna) sulle quali si fonda una società che non deve essere travolta dalla crisi ma deve ricominciare il cammino verso il futuro su fondamenti etici e istituzionali profondamente riformati.

Beppe Del Colle



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