Governo e Famiglia si ricordino di Torino

A dieci anni dalla scomparsa dell’Avvocato Agnelli, la Fiat di Sergio Marchionne si presenta come una medaglia dai due lati: bene in America (perfettamente riuscita, con il sostegno di Obama, l’operazione Chrysler), male in Europa e in Italia (l’anno scorso le vendite sono scese de 20 per cento, negli stabilimenti domina la cassa integrazione, da Mirafiori, giunta ormai al settimo anno, sino a Melfi, dove è recente l’annuncio di due anni di stop, nonostante l’inaugurazione in pompa magna con Monti).

Marchionne, dopo la scomparsa nell’arco di un anno di Gianni e Umberto Agnelli e la gestione farraginosa della Fiat dell’ad Morchio, ha assunto le redini dell’azienda in un momento difficilissimo: si parlava di fallimento  (evitato per l’intervento del presidente Ciampi sulle banche), di spezzatino” (tesi Salza)… La scelta americana (non nuova per il Lingotto, dopo gli accordi dell’Avvocato con la General Motors) è stata determinante per la salvezza del Gruppo, come ha più volte riconosciuto Carlo De Benedetti, già ad di Fiat nel 1976; tutti gli analisti danno per certa la fusione Fiat-Chrysler nel 2014, con la sede legale a Detroit (Obama non molla su questa richiesta, avendo finanziato il Lingotto), mentre Torino, declassata, resterebbe capofila per l’Europa. Lo spostamento del baricentro a Detroit certamente garantisce Marchionne, gli eredi Agnelli e gli azionisti (gli utili del Gruppo vengono da Oltreoceano), ma lascia gravi problemi per l’occupazione in Italia, come hanno più volte rilevato il ministro Corrado Passera, lo stesso De Benedetti e l’imprenditore Diego Della Valle.

L’esigenza che la Fiat mantenga un forte radicamento in terra subalpina è stata più volte sottolineata dalla Chiesa torinese, con gli arcivescovi Paletto e Nosiglia, memori del contributo centenario che migliaia di lavoratori (tecnici, operai, impiegati) hanno dato al Gruppo (insieme ai notevoli aiuti dello Stato). Ha ragione Marchionne nel lamentare l’assenza dei governi, dal 2005, mentre non solo Obama ma anche Sarkozy hanno fatto ricorso al denaro pubblico per salvare l’industria automobilistica; appare tuttavia grande la differenza del Gruppo e della famiglia Agnelli-Elkann nell’impegno sulle due sponde dell’Atlantico. In particolare, la famiglia, con la finanziaria Exxor, ha compiuto rilevanti investimenti in Europa (dal mattone di lusso in Francia e Germania al turismo), ma non sembra aver riaffermato la centralità della presenza a Torino, in questo differenziandosi dalla linea di Gianni e Umberto e dei loro prestigiosi consiglieri, il finanziere Gabetti e l’avvocato Grande Stevens, ormai “pensionati” dai fratelli Elkann.

La crisi che morde l’area subalpina (quattro-cinque mila persone che non hanno da mangiare, secondo il Banco alimentare, 100 mila poveri alle mense Caritas, il boom degli sfratti) non è soltanto la conseguenza della crisi economica generale. Torino, che negli anni Settanta “importava” lavoratori dal Veneto e dal Sud, oggi ha il record di giovani senza lavoro, anche se il tema non ha la priorità su alcuni media, più interessati al destino delle mummie del Museo Egizio. Ora, sollecitato anche da Monti nel suo discorso a Melfi, Marchionne ha annunciato 16 nuovi  modelli  entro quattro anni e ha garantito che nessuna fabbrica italiana chiuderà. Ma la lunga cassa integrazione è per i lavoratori e l’indotto una semi-chiusura, perché il reddito si dimezza ai livelli di sussistenza.

Su Torino, dopo il positivo avvio della costruzione della Maserati nell’ex Bertone di Grugliasco, si annuncia per Mirafiori il “polo del lusso”; ma la città attende divedere i frutti, come san Tommaso, perché lo stesso Marchionne ha già cambiato più volte progetti sul futuro della fabbrica-simbolo del Gruppo (la “t” di Fiat rischia seriamente di essere un ricordo di un glorioso passato, sostituita dalla “d” marchio-Obama).

Nelle crisi italiane del Gruppo, anche l’editrice «La Stampa» non appare esente: dopo la vendita per fare cassa della bella sede in riva al Po, oggi si annuncia un nuovo piano di ristrutturazione, con ulteriori prepensionamenti di giornalisti e poligrafici. E’ pur vero che l’editoria è in una generale difficoltà, ma i grandi gruppi rispondono con una politica di investimenti, non solo di tagli. Dopo la chiusura della storica «Gazzetta del popolo», nell’indifferenza della Fiat che invece salvò, a duro prezzo, il «Corriere della Sera», il continuo ridimensionamento de «La Stampa» (oggi scesa nelle edicole italiane sotto le 200n mila copie) apre un serio problema al giornalismo subalpino, che rischia una forte perdita di ruolo nel panorama nazionale. Anche qui appare opportuno riprendere l’appello della Chiesa torinese alla proprietà Fiat perché non rallenti il legame con le radici storiche del Gruppo (a cui comunque deve le sue rilevanti fortune).

Bene l’America di Obama, ma Torino e l’Italia non possono divenire d serie B, soprattutto dopo l’annunciata fusione con Chrysler. Anche il nuovo governo dovrà prestare adeguata attenzione al futuro dell’industria automobilistica: Berlusconi non ha curato il problema (ai funerali dell’Avvocato, in Duomo, giunse su una macchina estera), ma il governo Monti, con i ministri Passera e Foriero, non è andato oltre la politica delle buone intenzioni.

Mario Berardi

 



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