![]() Accesso utente |
Sentenza sui gay: il cavallo di TroiaLa storia del cavallo di Troia è nota a tutti e rappresenta l’esempio di ciò che viene presentato come un dono, e invece nasconde al suo interno qualcosa di dannoso. Questa storia ritorna in mente leggendo la sentenza della Cassazione sul caso di Brescia. Chi non approverebbe che un figlio abbandonato da un padre disinteressato e violento venga affidato alla madre? Sembra addirittura ovvio. Ma viene spontaneo interrogarsi quando si viene a sapere che la madre è una signora lesbica che convive con la sua fidanzata e di conseguenza impone questa convivenza al figlio. Prendiamo atto che nell’emergenza non bisogna andare troppo per il sottile: una madre lesbica e amorosa sembra più idonea di un padre indifferente e violento. Quando non è possibile scegliere il meglio si accetta il minor male. Anche durante la guerra si mangiava qualcosa che sembrava pane, ma non si sapeva con quali ingredienti fosse confezionato. E si sopravviveva. Per questo non mettiamo in discussione il fatto che in certi casi è giocoforza tra due mali scegliere il minore. Ma la Cassazione decide l’affidamento alla madre lesbica dicendo che è un «mero pregiudizio» pensare che un figlio non possa crescere in modo normale in una coppia omosessuale. Ecco il “tradimento” del cavallo di Troia. Nel dono (l’affidamento del figlio al genitore più adeguato) si nasconde qualcosa che non è più un dono, ma è l’esplicita affermazione che sono vittime di pregiudizi quelli che sollevano dubbi sulle capacità educative di una coppia omosessuale. Rileggiamo le parole dei giudici Nella sentenza dei giudici leggiamo: «Non sono poste certezze scientifiche o dati di esperienza, bensì il mero pregiudizio che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale. In tal modo si dà per scontato ciò che invece è da dimostrare, ossia la dannosità di quel contesto familiare per il bambino, che dunque correttamente la Corte d’appello ha preteso fosse specificamente dimostrata». Anzitutto stupisce che si parli di «famiglia incentrata su una coppia omosessuale». I giudici sono caduti nello stesso difetto che denunciano, cioè di «dare per scontato ciò che invece è da dimostrare». Infatti avrebbero dovuto prima dimostrare che esiste una famiglia centrata su una coppia omosessuale. La Costituzione italiana parla di famiglia fondata sul matrimonio; e fino ad oggi nella legislazione italiana non troviamo l’esistenza di un matrimonio tra persone omosessuali che diventi il fondamento di una famiglia. Ma ancor più stupisce l’impostazione di tutto il ragionamento. E’ come se una casa farmaceutica immettesse nel mercato un farmaco nuovo e il giudice dicesse che può farlo finchè i cittadini, che sono i destinatari del farmaco, non ne dimostrano la pericolosità. L’onere della prova non spetta a chi si trova di fronte ad un fatto nuovo che crea dubbi e perplessità, ma spetta a chi introduce nella convivenza sociale prodotti e comportamenti che modificano il modo di vivere di secoli e millenni. Anzi, a chi introduce questi prodotti o fatti nuovi spetta non solo l’onere di dimostrarne l’innocuità, ma si richiede che ne dimostri l’efficacia. Ancora: dato e non concesso che sia vera l’affermazione che «non sono poste certezze scientifiche o dati di esperienza che dimostrino che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale», da questa premessa non si può concludere che sia un bene o un minor male affidare un bimbo ad una coppia omosessuale. Logica insegna che non è possibile dedurre una conclusione positiva da una premessa negativa. Peiorem semper sequitur conclusio partem, dice ancora oggi la logica. In altre parole: anche se fosse vero che non esistono studi e ricerche sull’argomento (e invece esistono), vale sempre il principio che in caso di dubbio è necessario astenersi dall’agire finchè il dubbio non sia sciolto. E’ il principio di precauzione. Un cacciatore che non sa se dietro un cespuglio ci sia un uomo o un cinghiale non può decidere di sparare riservandosi di verificare in seguito quello che si nascondeva nel cespuglio. E se si verifica una situazione in cui è necessario prendere una decisione nonostante tutti i dubbi, si deve dire chiaramente che si è coscienti di accettare un rischio, e che quella soluzione non può essere presa come un principio che fa testo in casi analoghi. Non sarebbe stato meglio affidare il bimbo alla madre senza aggiungere l’affermazione che è un pregiudizio sostenere che le coppie omosessuali non sono in grado di educare come le coppie eterosessuali, e lasciare agli esperti la responsabilità della prova delle loro affermazioni? Quando non si hanno gli strumenti e la competenza per dimostrarne con certezza la validità di una affermazione, è saggezza fermarsi al caso singolo e non pretendere di formulare principi universali, specialmente quando è facile prevedere che l’affermazione potrebbe essere sbandierata come principio da applicare in ogni caso, dando così spazio a chi cerca nelle sentenze il pretesto per sostenere le proprie tesi. Sutor ne ultra crepidam! Verrebbe voglia di rivolgere ai giudici che hanno stilato questa sentenza la domanda: «Non pensate di essere andati oltre la vostra competenza?». Ricordiamo le parole di Fidia, che all’amico calzolaio che criticava i sandali di una sua statua e dai sandali era passato ad altri parti della scultura: Sutor, ne ultra crepidam, cioè, «calzolaio, la tua critica non vada oltre i sandali». In base a quali elementi questi giudici possono affermare che sia vittima di pregiudizi chi pone il dubbio che le coppie omosessuali siano in grado di educare i figli come le coppie eterosessuali? Certamente non in base a elementi tratti dal diritto, nel quale i nostri giudici sono dei grandi esperti. In base, allora, alla loro competenza in psicologia e in pedagogia? Ma quale competenza hanno in questo campo? Oppure in base a principi dimostrati da professionisti competenti in materia. Ma anche questa risposta non tiene, perché in questo campo gli esperti sono divisi. C’è chi sostiene che un figlio può essere educato in modo equilibrato tanto da una coppia omosessuale che da una coppia eterosessuale, altri invece dimostrano che i figli di coppie omosessuali sono statisticamente esposti a disturbi preoccupanti. Allora nasce un’altra domanda: perché e in base a cosa questi giudici hanno fatta propria la posizione di chi ritiene che una coppia omosessuale sia in grado di educare convenientemente un figlio, e non la posizione di chi sostiene la tesi contraria? C’era forse in essi l’intenzione di affermare una tesi che andava oltre la sentenza? (1 – continua) Giordano Muraro o.p.
|