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Il Presidente ricomincia dalle armi«Dear president», caro presidente: così inizia la letterina che, con grafia incerta, la piccola Hinna, 8 anni, ha scritto a Barack Obama, riportando in poche righe lo sgomento provato, insieme a tutta l’America, alla notizia della strage nella scuola elementare di Newtown, in Connecticut, dove uno squilibrato ha ucciso molti suoi coetanei. E conclude con un appello: «No guns!», niente armi. Obama ha pubblicato il messaggio della bambina sulle proprie pagine di Facebook, per sottolineare l’inderogabile necessità di modificare la legislazione sul controllo delle armi e, a circa un mese da quella strage, ha annunciato in conferenza stampa l’adozione di una serie di misure restrittive in tal senso. Poi, simbolicamente circondato da bambini, ha firmato il decreto. Si tratta di 23 ordini esecutivi sintetizzabili in quattro punti principali: controlli preventivi su eventuali precedenti penali o problemi mentali per chi acquista armi da fuoco; divieto di vendita di fucili d'assalto e caricatori ad alta capacità di proiettili; misure per rendere più sicure le scuole; miglior accessibilità alle strutture sanitarie per la cura e il controllo delle patologie mentali e nervose. Alcune di queste misure, come il bando delle armi semi-automatiche, sono di competenza del Congresso, che non a caso Obama ha messo sotto pressione, sempre su Facebook, con un appello agli elettori: «Chiedete al vostro membro del Congresso se è più importante ottenere una “A” [il voto più alto, ndr] dalla lobby delle armi che ha finanziato la loro campagna elettorale, o dare tranquillità ai genitori che mandano i propri figli a scuola». Presentando le misure, che comporteranno una spesa di 500 milioni di dollari nel bilancio federale del prossimo anno, Obama ha inoltre affermato: «Ogni giorno che aspettiamo ad agire aumenta il numero delle vittime. Dopo la strage di Newtown ci sono state già 900 vittime. Abbiamo davanti una sfida complicata. Proteggere i nostri bambini non dovrebbe dividerci». E invece il decreto ha spaccato in due gli Stati Uniti: secondo i sondaggi, ben il 45 per cento degli americani è contrario alle misure attuate, anche se il 55 per cento dei cittadini sta col presidente, e la percentuale tende a crescere. La vicenda è emblematica del nuovo corso impresso da Obama alla propria leadership nel suo secondo e ultimo mandato. L’impressione è che il presidente fosse conscio che un solo quadriennio non sarebbe bastato per impostare un cambiamento radicale nelle politiche statunitensi, motivo per cui in molti casi è parso agire con eccessiva cautela, sempre alla ricerca di compromessi a volte limitanti, pur di non inimicarsi le potenti lobby in grado di influenzare il voto popolare e mettere in pericolo la sua rielezione. Ma dopo la riconferma, Obama ha smesso di agire con il freno a mano tirato, e ha iniziato a pigiare sull’acceleratore, nel tentativo di dare la propria impronta al cammino degli Stati Uniti e farli uscire dalla crisi dell’ultimo decennio (caratterizzato dalla disastrosa presidenza Bush e dagli attentati dell’11 settembre, oltre che dalla crisi economica perdurante) su una strada nuova, proiettata verso un futuro sostenibile e solidale. Una sfida non facile e irta di ostacoli, che vale la pena analizzare nelle sue linee essenziali, partendo dai punti principali del programma presentato dal Partito democratico in campagna elettorale: tagli alle tasse per la middle-class; investimenti pubblici in infrastrutture ed energia pulita; rafforzamento dell’assistenza medica pubblica e della sicurezza sociale; sgravi fiscali per aziende che creano occupazione negli Stati Uniti. Misure, le ultime due, che hanno già trovato ampio spazio nel primo quadriennio, in particolare con l’introduzione dell’assistenza sanitaria estesa a tutti i cittadini e con il fondamentale appoggio finanziario fornito all’industria automobilistica in piena crisi, compresi i lauti finanziamenti concessi alla Chrysler, il vero motivo per cui Marchionne ha deciso di spostare il baricentro del Gruppo Fiat a Detroit, cancellando di fatto il millantato Programma Italia e marginalizzando Torino. I prossimi passi prevedono la creazione di un milione di posti di lavoro entro il 2016, l’addestramento di due milioni di futuri lavoratori grazie a investimenti sulla formazione, il raddoppio delle esportazioni americane e il taglio delle importazioni di petrolio, da sostituire appunto con l’implementazione delle energie rinnovabili. Un programma ambizioso, in particolare per quanto riguarda le esportazioni, specie se la crisi continuerà ad attanagliare l’Europa, principale partner economico degli States: per questo è probabile che Washington darà un forte appoggio all’Ue, impegnata a risolvere le crisi a catena che la percorrono a causa delle proprie discutibili scelte di politica economica e monetaria. Al tempo stesso gli Stati Uniti continueranno a muoversi da protagonisti nello scenario mondiale, anche se più sottotraccia rispetto al protagonismo muscolare tipico delle amministrazioni repubblicane: accantonate le imprese militari che legittimavano le accuse di imperialismo rivolte alla dinastia Bush, la parola è tornata alla diplomazia, impegnata soprattutto nel difficile contesto islamico e mediorientale, destabilizzato dal turbinio delle primavere arabe, infiammato dalla guerra civile in Siria e minacciato dal conflitto latente fra Israele e Iran. In quest’area il presidente ha già conseguito alcuni successi, quali il ritiro delle proprie truppe dall’Iraq e l’eliminazione del “nemico pubblico numero uno” Osama bin Laden, scovato e giustiziato dalle truppe speciali. Ma proprio quest’ultimo episodio mette in luce uno dei nervi ancora scoperti, la prosecuzione di quella guerra in Afghanistan ormai palesemente inutile e costosa sia in termini economici che di vite umane. Una guerra voluta dal suo predecessore proprio per catturare bin Laden, che ormai non ha più ragione di essere, dopo oltre undici anni di conflitto più o meno aperto, che ha provocato migliaia di vittime fra i civili e centinaia di caduti nelle file dei vari eserciti presenti (compreso il contingente italiano, che ha pagato un tributo di decine di morti) senza apportare alcun reale beneficio alla popolazione e al Paese. Occorre dunque che la exit strategy dal conflitto assuma tempi e modi più definiti, per ritirare le truppe straniere dall’Afghanistan e trovare alternative più efficaci per sostenere lo sviluppo e l’autodeterminazione della popolazione. Come del resto sta avvenendo nella fascia del Maghreb, dove i diplomatici statunitensi sono impegnati nel ricostruire le proprie relazioni con le nuove leadership emerse dopo il rovesciamento dei regimi precedenti, approfittando anche della parziale latitanza di un’Europa disunita, dove i singoli Paesi si muovono per conto proprio e spesso in contrasto fra loro. Più complesso il rapporto con Israele, alleato fondamentale degli Usa nella regione, ma al tempo stesso fattore di rischio perché continua a progettare un attacco all’Iran, opzione che Washington vuole evitare a ogni costo, mentre d’altro canto appare impegnata nella storica risoluzione dell’eterno conflitto israelo-palestinese mediante la creazione di due stati separati, a sua volta ostacolata da Tel Aviv. Altra cosa ancora è la Siria, dove il muro contro muro opposto da Russia e Cina ha finora impedito di arrivare a una soluzione negoziale, che metta fine alla strage tuttora in corso. È qui che gli Usa fronteggiano direttamente gli altri due giocatori che contano realmente sullo scacchiere geopolitico e strategico mondiale, e con i quali dovranno confrontarsi a livello globale nel futuro prossimo. Con una differenza fondamentale: mentre la Russia è un competitor che, sebbene ancora in grado di far sentire la sua presenza, appare decisamente ridimensionato rispetto all’epoca della Guerra fredda, la Cina è prepotentemente in espansione, e sarà proprio Pechino a mettere prossimamente sotto pressione gli Stati Uniti. Riccardo Graziano
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