Don Puglisi l'antimafia col Vangelo

Padre Pino Puglisi fu ucciso il 15 settembre 1993 vicino alla sua parrocchia di Palermo, condannato a morte dai boss mafiosi per il suo impegno contro la criminalità organizzata: la sua coerenza personale, l’insistenza sull’educazione dei giovani alla legalità e la capacità di motivare altri a questo impegno lo avevano reso un “nemico” da eliminare al più presto, per riportare il pieno controllo della criminalità sul territorio.

Quando quella sera di vent’anni fa i due killer gli si avvicinarono con la pistola in pugno, padre Puglisi sorrise ai suoi uccisori e disse: «Me l’aspettavo».

L’esecuzione di padre Puglisi fu decisa perché, come hanno dichiarato alcuni affiliati alle cosche, «era un prete che non si faceva i fatti suoi», «non era dalla parte dei mafiosi», «disturbava Cosa Nostra». Un equilibrio si era rotto e le conseguenze potevano essere pesanti. «Nel passato la Chiesa era considerata sacra e intoccabile. Ora invece Cosa Nostra sta attaccando anche la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia. Gli uomini d’onore mandano messaggi chiari ai sacerdoti: non interferite»: le parole del pentito Francesco Marino Mannoia, raccolte nell’agosto del 1993, poche settimane prima dell’omicidio a Brancaccio, raccontavano di uomini di Chiesa che si stavano opponendo apertamente alla mafia, come prima solitamente non accadeva, incrinando la corazza di silenzio durata a lungo, troppo a lungo.

«Come padre Puglisi, la Chiesa deve interferire contro le scelte della criminalità organizzata, sempre», sostiene con forza don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e presidente di Libera, la rete di associazioni, nomi e numeri contro le mafie. «Il parroco di Brancaccio ha testimoniato che non bisogna piegarsi ad alcun potere contrario al Vangelo e alla vita: di fronte a chi voleva ricacciarlo in sacrestia, ha mostrato che togliere i ragazzi dalla strada, chiedere legalità, far rispettare i diritti è non soltanto un dovere di ogni cittadino, ma l’impegno di ogni cristiano». Le frasi di don Ciotti sono risuonate a Torino, nella sala della «Fabbrica delle E» affollata di giovani e adulti, durante l’incontro che venerdì scorso ha ricordato padre Puglisi; è stata un’occasione importante per non rompere il filo della memoria e rendere il martirio del prete palermitano un richiamo urgente alla responsabilità di ognuno, anche fuori della Sicilia.

Al parroco di Brancaccio non erano mancate le difficoltà, anche da parte di chi insisteva che la Chiesa non si dovesse occupare di questi argomenti. Aveva però trovato sostegni inaspettati. Giovanni Paolo II, nel maggio 1993, nella Valle dei templi di Agrigento aveva gridato contro la mafia, «civiltà della morte», che costringeva i siciliani a vivere sotto ricatto. Puntuali, poche settimane dopo, a Roma, due bombe colpivano le chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro: un avvertimento, nel linguaggio mafioso, nella stagione delle stragi e degli attentati di inizio anni Novanta, dove erano già morti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e, prima di loro, Rosario Livatino, il «giudice ragazzino» di Agrigento. E alla fine dell’estate 1993, un colpo di pistola uccideva Puglisi.

La testimonianza lasciata da padre Pino non può lasciare indifferenti i credenti. «I mafiosi si sono creati un loro Dio che li fa sentire dalla parte del giusto: anzi, sono convinti di essere stati scelti da Dio», ha ricordato don Ciotti. I richiami alla religione servono spesso al crimine organizzato per suggellare patti di sangue, raccogliere consensi tra la popolazione, accreditare la propria azione tra le autorità locali e rafforzare la rete capillare di favori e interessi. La contiguità mafiosa coinvolge, in Sicilia e nel resto d’Italia, anche le istituzioni religiose, a volte ignare di ciò che sta accadendo, altre volte inconsapevoli della pericolosità di quelle relazioni opache, altre volte luoghi di collusioni inconfessabili. In certi casi, sono stati documentati i tentativi della criminalità organizzata di infiltrare propri affiliati in alcune associazioni cattoliche, per controllare e condizionare l’azione dei gruppi. E tra coloro che tradirono don Pino vi erano alcuni suoi parrocchiani.

Don Puglisi conosceva bene la realtà della mafia, le sue ramificazioni, il suo potere di distruggere la società dietro l’apparente ossequio per le tradizioni e la religione. Nato nel 1937 a Brancaccio, Puglisi era cresciuto immerso nell’atmosfera impalpabile e densa della cultura mafiosa. Gli insegnamenti della famiglia (il padre era calzolaio, la madre sarta), l’impegno in parrocchia, lo studio e l’innata curiosità intellettuale lo portarono presto a interrogarsi sulla realtà che lo circondava e a fare una scelta di campo precisa, come uomo e come prete. Nelle discussioni del Concilio vaticano II trovò conferma alle sue intuizioni e non si tirò indietro davanti alle difficoltà: prima in un paesino sulle Madonie, poi in un orfanotrofio dove erano ricoverati cinquecento bambini e attraverso l’insegnamento della religione ai liceali mise alla prova la sua capacità di ascolto. «Don Puglisi si è misurato sul terreno della vita», ha affermato don Ciotti, «si è mostrato aperto a tutti, convinto che nessun uomo è lontano da Dio e che Dio non forza il cuore di nessuno, ma rispetta la libertà. Per questo si è battuto contro una fede superstiziosa, bigotta e devozionale che addormenta le coscienze e ha creduto con tenacia alla forza dell’impegno collettivo».

A Brancaccio tornò come parroco nel 1990, entrando nella chiesa di San Gaetano con la certezza che la mafia fosse soltanto un aspetto del problema: dove mancano lavoro, cultura, principi morali e futuro, bisogna rimboccarsi le maniche, agire insieme, attraverso scelte che rompano il muro di omertà, perché, come ripeteva, «se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto». La lotta alla mafia è fatta di piccoli gesti, di scelte compiute giorno per giorno, con costanza, con fedeltà. Le parole possono essere pesanti come pietre, soprattutto quando contro la violenza giocano la carta della riconciliazione e della giustizia. Don Ciotti ha detto: «Padre Puglisi voleva capire, parlare, educare i ragazzi per cambiare le cose: era un uomo di Dio». Per questo, per essere morto a causa della sua fede, il sorridente e determinato parroco di Brancaccio sarà beatificato a Palermo il 25 maggio prossimo.

Marta Margotti

 



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