"Storia d'amore" fra un imprenditore e l'Alighieri

Per comprendere il motivo per cui dopo sette secoli Dante continua a essere letto nelle piazze o nelle corti medievali, bisogna ritornare là, a ritroso nel tempo, quando erano ancora pochi coloro che potevano accedere ai testi scritti e le opere circolavano solo grazie alle penne e ai pennini dei copisti.

L’unica forma di comunicazione, che permetteva la diffusione dei saperi anche all’esterno delle torri d’avorio degli addetti ai lavori, artisti, nobili, letterati o chierici che fossero, era dunque la lettura pubblica.

La «Divina Commedia» era stata composta con questo intento e Dante lo testimonia quando nel «Purgatorio» fa dire a Beatrice e poi a Cacciaguida e san Pietro nel «Paradiso», di riferire ai vivi i misteri visti e ascoltati nel mondo ultraterreno. Proprio per assolvere questo compito il poema era stato scritto in una lingua «universale», che tutti potessero comprendere, non in latino, dunque, che ai suoi tempi era la lingua dei dotti.

In latino scrive, invece, il «De vulgari eloquentia», proprio per dimostrare ai sapienti che la lingua del popolo, del volgo, può anche essere lingua della poesia, di una poesia alta al punto da misurarsi con la lingua del cielo: un sermo humilis che doveva tuttavia rispondere a una serie di qualità che lo rendevano degno di chiamarsi «illustre», una pantera profumata nascosta nella selva dei dialetti italiani, – dice Dante nel «De vulgari» – che lui stanò nel toscano, dotato di tastiere armoniche capaci di rappresentare una lingua comune: la lingua nazionale.  Il nostro italiano nasce in quelle piazze.

In questi giorni nel Palazzo Madama di Torino il poema cui «pose mano cielo e terra» ritorna là, al tempo in cui nacquero le prime preziose testimonianze scritte della sua opera, grazie all’esposizione di ottanta gioielli di calligrafia e di stampa, esposti per testimoniare sette secoli di tradizione, diventati nel corso del tempo oggetti d’arte, grazie all’arte tipografica e alle illustrazioni degli artisti.

La straordinaria collezione è di Livio Ambrogio, un imprenditore torinese del trasporto, che le ha stanate con la passione di una vita, spinto da un amore germogliato ai tempi del liceo, grazie a un insegnante che applicava la regola di Plutarco («L’opera del maestro non deve consistere nel riempiere un sacco, ma nell’accendere una fiamma»).

Gli effetti di questa regola antica sono ora sotto gli occhi dei visitatori del Museo civico d’Arte antica, diretto da Enrica Pagella. Il titolo della mostra è «Dante ti amo», un’iscrizione che una studentessa ignota impresse sulla grande lavagna di Palazzo Madama ben prima dell’allestimento e che il collezionista ritenne l’unica degna di esprimere intenti e contenuti della sua collezione, che oggi costituisce la raccolta privata più vasta e importante delle opere di Dante Alighieri: trent’anni di «amore» per i libri e i cimeli danteschi.

A fare da degna cornice a questo evento, la Società Dante Alighieri e la Biblioteca nazionale universitaria di Torino hanno organizzato a cavallo tra novembre 2012 e gennaio 2013 un ciclo di conferenze nell’Auditorium della Biblioteca nazionale universitaria, per approfondire aspetti diversi della letteratura dantesca, dalla ricerca di perfezione tipografica di Giambattista Bodoni (Andrea De Pasquale, Direttore della Biblioteca Nazionale), al valore simbolico che Dante rappresentò per il Risorgimento italiano (Luca Serianni) e all’analisi di alcuni aspetti linguistici dell’opera (Gian Luigi Beccaria).

Per tornare là, dove nel 1300 Dante seppe rendere illustre anche il volgare, Mario Brusa – maestro nella lettura metrica dei testi – ha anche dato voce alle rarissime edizioni esposte in un ciclo di brevi incontri pomeridiani tenuti nella Corte medievale del Palazzo torinese, dove ha reso tangibile l’incredibile modernità di un’opera che non ha età, perché la sua storia continua a restare incastonata nell’eternità di un tempo «a cui tutti li tempi sono presenti», un tempo che sfugge alla cronologia. Ed è bastata l’invettiva che Dante scaglia nel canto VI del «Purgatorio» contro il malgoverno e lo scandalo, che sembra risuonare anche oggi, dopo sette secoli, e che ha attraversato come un brivido la Corte medievale di Torino il 9 dicembre 2012. 

L’ultima lettura è stata dedicata agli ultimi canti dell’«Inferno» e al passaggio sulla riva dell’altro emisfero. Dopo aver rappresentato il male della selva, della terra, della cecità del peccato, Dante testimonia così la possibilità di una seconda nascita e raffigura il transito dal ghiaccio di Cocito alla spiaggia del «Purgatorio» come un cordone ombelicale, una «natural burella», che parte dalla buia caverna nella quale è conficcato Lucifero e sfocia nell’emisfero opposto, dove potrà rivedere la luce delle stelle. È questo l’augurio dantesco per gli anni che verranno.

Oltre al catalogo della mostra, che scandisce come in un racconto le opere nel corso di sette secoli, la bibliografia dantesca è un fiorire continuo di pubblicazioni critiche e nuove edizioni, testimoniando ancora una volta che la lettura dei suoi testi è una fonte inesauribile e che ogni punto di vista riporta il filo della grande ragnatela da lui tessuta al suo centro. Fresca di stampa è la «Vita Nova» a cura di Guido Davico Bonino, che sembra rispondere a canoni che sarebbero piaciuti al suo autore, perché nel raccontare con rigorosa sapienza il significato dell’opera, rende il «romanzo d’amore» di Dante per Beatrice accessibile a tutti, grazie a un linguaggio «soave e piano», come si addice alla donna della suprema Carità.

Pubblicata dalla Sei, che da più di vent’anni offre a quei ragazzi che scrivono «Dante ti amo» una guida scolastica alla lettura della «Divina Commedia», questa edizione è corredata da un dossier illustrato, che ripercorre una lunga tradizione iconografica sui due protagonisti, da una miniatura giottesca del sec. XIV nell’eden sovrastato da un cielo stellato alle opere contemporanee raccolte dalla Fondazione Casa di Dante in Abruzzo. A completare questa edizione della «Vita Nova», l’editore ha ritenuto aggiungere simbolicamente la «Premessa» con la quale Charles S. Singleton (1909-1985) aveva avviato il suo celebre «An Essay on the “Vita Nuova”» del 1958, nella traduzione che Gaetano Prampolini, su incarico dello stesso Singleton, aveva fatto per l’edizione italiana del Mulino, pubblicata dieci anni dopo.

Per comprendere fino in fondo questa scelta, bisogna tornare a quel «Dante ti amo» che si manifesta ancora oggi nel ventaglio di iniziative torinesi. Charles Singleton, infatti, che insegnò per molti anni a Harvard e alla Hopkins University, fu uno di quei rari e illuminati critici che dedicarono l’intera esistenza allo studio del poeta fiorentino e, per amore e solo per amore, lui volle che ogni suo studio avesse una duplice edizione italiana: la prima edita come un gioiello tipografico dalla Stamperia Valdonega di Mardersteig (il cui capostipite fondò l'Officina Bodoni a Lugano nel 1922, per poi trasferirla cinque anni dopo a Verona, la città di Cangrande della Scala) e la seconda per la casa editrice Il Mulino, scelta perché ha sede a Bologna, la città che vanta la più antica università del mondo occidentale, dove studiò lo stesso Dante. Nel rendere omaggio a un maestro che prende ormai appunti oltre le nuvole, Guido Davico Bonino ha così dimostrato ancora una volta che l’altezza di uno studioso si misura soprattutto con l’onestà intellettuale e il rispetto delle fiamme altrui. 

Giovanna Ioli



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