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Educazione con il cuore o Facebook?Un nuovo caso di adolescente suicida ha scosso nei giorni scorsi l’opinione pubblica. La vicenda di Carolina, una ragazza di Novara, fa il paio con gli episodi di Andrea, alunno in un liceo di Roma, suicidatosi nel novembre scorso, e di un altro studente di 14 anni che si tolse la vita a Ischia qualche tempo fa. Tre casi che si somigliano perché questi giovani sarebbero stati tutti e tre vittime di atti di bullismo, colpiti da messaggi trasversali ambigui via Internet, oggetto di una violenza silenziosa quanto vile. Cambiano le modalità, non la sostanza di un fenomeno in inquietante aumento e adesso gestito anche mediante forme nuove intonate alla egemonia dei media. Il bullismo si colora di tecnologia, il persecutore insegue la vittima usando i mezzi mediali, dilatando il messaggio e caricandolo, se possibile, di una aggressività più sofisticata e penetrante. Twitter e Facebook sono appendici virtuali della vita quotidiana dei ragazzi che spesso e volentieri creano effimeri rapporti personali, li distruggono altrettanto rapidamente, veicolano messaggi le cui conseguenze spesso non sono calcolate, sfuggendo a ogni controllo. E che, come potrebbe essere successo nel caso di Carolina, sono l'ultima goccia che avvelena la vita. Fino a renderla insopportabile. Perché un giovane giunge a un gesto così estremo: basta un linciaggio via Facebook? Mancanza di sicurezza? Bisogno di essere accettati? Confusione di identità? Sofferenze estreme, depressioni gravi, disadattamento sono volti di una adolescenza inquieta che spesso noi adulti confondiamo solo con un’età spensierata e gioiosa. Di fronte a casi come quello di Carolina, strombazzato dai giornali perché la ragazzina carina che si toglie la vita fa notizia e la foto va a finire immancabilmente in prima pagina, bisognerebbe invece soltanto tacere e chiedersi perché il peggio sia stato possibile. Quale sofferenza interiore deve aver provato Carolina prima di spegnere la sua giovane vita se, come hanno riportato i giornali, avrebbe lasciato un messaggio nel quale si legge «scusate se non sono abbastanza forte, mi dispiace». I commentatori più seri che hanno accompagnato gli articoli di cronaca si sono soffermati su due principali temi: la diffusione incontrollata dei social network con la circolazione anarchica di messaggi che suggestionerebbe inevitabilmente i soggetti più deboli e la solitudine nella quale i ragazzi trascorrono la loro giornata. Per vincerla la soluzione più semplice è entrare nel circuito mediatico e cercare nella realtà virtuale quello che non è possibile trovare nella realtà-realtà. Riflessioni che hanno una loro fondatezza e che vanno prese in attenta considerazione. Credo tuttavia che ci sia una ragione che sovrasta tutte le altre. Dovremmo più radicalmente chiederci come sia possibile sconfiggere quello che Umberto Galimberti ha definito l’«ospite inquietante» che inquina la vita, non solo di giovani, ma insidia anche molti adulti: quel nulla di cui è spesso fatta la giornata dei ragazzi, dominata dal mito dell’apparire e dall’esibizione del corpo come unica forma dello stare al mondo. La realtà-realtà, di conseguenza, non è più guardata come «opportunità» e «promessa» ma «come minaccia», fonte di frustrazione e tristezza, tale da arrivare a scatenare forme incomprensibili di violenza e di solitudine. Come reagire per contenere questa deriva? Recuperando il senso profondo della parola «educazione». Sembra un’osservazione scontata, ma non è così, perché intorno a questa parola circola una cappa di sospetto, come se dietro questa espressione si nascondesse chissà quale intento illiberale. Non sono i valori astrattamente enunciati, come spesso si tende a credere e a fare, a orientare positivamente i processi di crescita, ma i comportamenti tangibili degli adulti educatori. Niente può sostituire la forza di un’esperienza che sa comunicare le proprie ragioni di vita e mobilitare le risorse perché chi cresce sia messo, a sua volta, in grado di vivere responsabilmente la propria. Soddisfare a questa esigenza è precisamente ciò che la sapienza cristiana ha individuato nella capacità di educare il «cuore». In ognuno di noi c’è un luogo che tendiamo a considerare come nostro, unico, intimo, nel quale ci riconosciamo non solo per conquistare la fiducia e la certezza della nostra esistenza, ma per aprirci alla comprensione degli altri e delle cose. Soltanto attraverso la coltivazione di questo particolare luogo (il «cuore») l’uomo è in grado di risalire alla sorgente di se stesso e di cogliere l’ampiezza del desiderio che lo sostiene. Mettere il «cuore» al centro dell’esperienza educativa (e umana) significa riscoprire soprattutto il valore della relazione come principale strategia educativa: stare insieme in ascolto, a casa, a scuola, ovunque, riscoprire il valore di un rapporto di reciprocità che si evolve nel tempo. Così si “scalda il cuore” e lo si fa crescere, senza bisogno dell’aiuto dello psicologo o dello psichiatra. Non è mai un intervento singolo che aiuta un ragazzo a crescere. È sempre una storia di relazioni che ne permette l’evoluzione. Stare al fianco di un adolescente nel suo percorso di vita (esperienza spesso faticosa, sempre incerta), significa aiutarlo a trovare la risposta ai suoi bisogni, come base per una reciprocità di relazione. Carolina ha abitato un tempo di tante domande senza risposta, di fragili biografie, di rotte incerte verso cui veicolare la propria esistenza. Nei suoi 14 anni, soprattutto, Carolina non ha incontrato nessuno che si sia preso cura di “scaldare il suo cuore”. Detto in altro modo: il «cuore» si mobilita attraverso un altro «cuore» e la libertà interiore non è un’esperienza di natura soltanto razionale, ma un’avventura che si manifesta all’intersezione dei sentimenti che innervano le relazioni umane: la partecipazione, la dedizione, la condivisione, la responsabilità e soprattutto la credibilità e la gratuità. L’immagine educativa dei genitori che si prendono cura dei figli rappresenta esemplarmente questo apertura al mondo accompagnata da una promessa che, se smentita, si trasforma nel dramma dell’abbandono. E se vengono meno i genitori, come in molti casi avviene, c’è da sperare che i giovani incontrino qualche adulto capace se non di sostituirli (ciò che è impossibile), almeno di svolgere un’azione vicariante. Quando gli adulti sono assenti e non iniettano nei giovani fiducia nella vita, se ci identifichiamo nelle cose che possediamo e non in ciò che siamo, se riduciamo il senso della vita alla sola dimensione della ricerca del successo immediato, intorno a noi crescono il deserto o l’illusione che il godimento passeggero sia l’unica ragione per la quale merita vivere. O che, per i più piccoli e indifesi, le ragioni per cui vivere (o purtroppo morire) stiano nei giudizi che gli altri esprimono su Facebook. Giorgio Chiosso
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