Ragazzo, non c'è bisogno di te

«Sta diventando una malattia dell'anima», aveva detto, nella prolusione al Consiglio permanente Cei di settembre, il cardinal Bagnasco. Malattia dell’anima, la disoccupazione, e anche l’inoccupazione, che, diceva, «sono gli approdi da una parte più aborriti e dall'altra quelli a cui ci si adatta pigramente, con il rischio di non sperare, di non cercare, di non tentare più».

Il recente dato statistico di quel giovane su tre sotto i venticinque anni che cerca lavoro e non lo trova è un numero, ma ha anche il volto di qualcuno che forse vive anche sotto il nostro stesso tetto, al massimo al piano di sotto. Ma, come ha detto l’arcivescovo di Genova e presidente della Cei, c’è forse qualcosa di peggio del non avere lavoro: è il non cercarlo più. La rinuncia, e quindi il vuoto, l’indifferenza indotta.

«I giovani vivono una grande sofferenza generata da una sorta di inganno», commenta per noi monsignor Nicolò Anselmi, che dopo i cinque anni passati a curare la Pastorale giovanile nazionale a Roma è rientrato a Genova: nella sua città, oltre ai giovani, gli è stata affidata anche una parrocchia nevralgica del centro storico, quello dove i giovani si ritrovano e si sentono a casa anche quando una casa non ce l’hanno o non la vogliono, e anche quando non hanno un lavoro e hanno smesso di cercarlo. «Li abbiamo invitati a studiare, a laurearsi, a fare master costosi», dice Anselmi, «a emigrare dal Sud al Nord, a essere competenti, ma, giunto il momento di poter essere attivi, non c'è lavoro, non c'è bisogno dei giovani».

Non c’è bisogno di te: è questo il messaggio che la società lancia al ragazzo che cerca lavoro. Solo un esame di coscienza che non sia fuori tempo massimo potrà salvarci, ma occorre rompere gli schemi perversi in cui società, economia e finanza sono cadute. «La mancanza di un reddito affidabile rende impossibile pianificare il futuro con un margine di tranquillità, e realizzare pur gradualmente nel tempo il sogno di una vita autonoma e regolare», diceva a settembre Bagnasco. E la foto si rivela con contorni talmente nitidi da chiedersi com’è possibile che una società così attenta ai diritti dei singoli poi se li dimentichi quando si parla di più di 600 mila, tutti insieme: sono i giovani che stanno cercando lavoro e non lo trovano.

«Stiamo sottovalutando l'enorme tragedia dell'alto livello della disoccupazione», ha affermato la settimana scorsa il presidente dell'Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, auspicando a livello europeo «un accordo per definire una base sui diritti minimi dei lavoratori» nel quale deve figurare «un salario minimo legale per tutti gli Stati membri della zona euro». Una tragedia: per i nostri figli, per il futuro. E sottilizzare che sono disoccupati uno su tre fra quelli attivi è un’espressione ancora più amara, perché i giovani che non rientrano nel computo sono quelli che studiano, ma anche quelli che il lavoro non lo cercano, o non lo cercano più. Il che è l’abdicazione anche a se stessi.

Nei loro blog ne parlano e discutono accorati: «C’è un modo, ben più raffinato, di dare ai giovani anche la colpa della propria disoccupazione», scrive una giovane, e cita il luogo comune diffuso: «Si è alzato troppo il tasso di istruzione, e quindi i giovani non vogliono più fare gli umili e sani lavori di una volta». Rispondono gli altri con il racconto di lavori sottoqualificati, capitale umano sprecato, fughe di cervelli all’estero. «Aggiungiamoci il fatto», interviene un ragazzo, «che le aziende non hanno né voglia né possibilità di scommettere su un giovane e sulla sua formazione, ma preferiscono sfruttarlo fino al midollo». E ancora, una ragazza: «Le industrie per stare al passo hanno aumentato la richiesta di professionalità e ci siamo diplomati, poi il numero di lavoratori nell’industria è cominciato a calare e il terziario richiedeva la laurea e (…) alè dott, ing, avv a iosa, quando invece ci volevano, che so, idraulici o falegnami…».

Un tasto controverso e delicato: «È ingannevole», commenta don Anselmi, «una cultura che considera come di "serie A" i lavori intellettuali e come attività di "serie B" i lavori manuali». In Liguria la giunta regionale ha stanziato 2 milioni e 270 mila euro del Fondo sociale europeo per valorizzare gli antichi mestieri e creare nuova occupazione nelle imprese artigiane di qualità. Fabbri, falegnami, manutentori del territorio, riparatori di biciclette e motocicli, impagliatori di sedie di Chiavari, maestri cioccolatai, artigiani di filigrana. Un progetto interregionale che coinvolge Liguria, Piemonte e altre sette regioni, che farà, si spera, lavorare, e lavorare con le mani. Che non vuol dire non usare la testa: che stia per nascere la figura dell’artigiano creativo, intellettuale, magari digitalizzato del Terzo millennio? Lo propone il sociologo Nadio Delai in un’intervista a «Lettera 43», dove preconizza un futuro di studio più veloce, con ventiduenni che finiscono un’Università breve come nei Paesi del Nord, e ricominciano perfino a fare prima i figli, uscendo presto dalle case dei genitori dove ora stanno uno su due fino ai 34 anni. Tutto grazie anche ad una diversa mentalità di selezione del lavoro, dove professionalità tecniche qualificate diventino di valore come le altre, comprimendo in verticale la scala sociale. Questo, ad oggi, solo nella sfera di vetro di un bravo sociologo. Mentre il presidente dei vescovi dice: «I giovani sono il nostro maggiore assillo, i giovani e il loro magro presente».

Sul blog studenti.it risuona da dicembre una proposta europea del commissario degli Affari sociali, l'ungherese Laszlo Andor, perché tutti gli Stati membri garantiscano un posto di lavoro o un corso di formazione a tutti i giovani fino ai 25 anni che terminano il ciclo scolastico o che vengono licenziati. Proposta che ha il limite di non vincolare con sanzioni gli Stati. L’idea è bella: non un assegno di reddito minimo per tirare avanti, non un’indennità tappabuchi, ma proprio un lavoro, da tirar fuori per forza per ogni giovane quando è il momento. «Essere disoccupati è una grave ferita alla dignità della persona, è un sentirsi rifiutati dalla società», dice don Nicolò Anselmi: è questa la «malattia dell’anima» di cui parla Bagnasco, quella che ti porta a non sperare, non cercare, non tentare più. E allora una delle soluzioni non passa solo attraverso gli strumenti in mano a politici e amministratori: «Il Vangelo invita chi ha due mantelli a darne uno a chi non ne ha; analogamente», dice il sacerdote dei giovani, «chi ha due lavori potrebbe darne uno a chi non ne ha. Donare lavoro è oggi un grande gesto di carità. Gli imprenditori tornino a fidarsi della Provvidenza».

Daniela Ghia

 



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