Melato, talento e umanità

L’avevamo ammirata l’ultima volta sul palco nel 2007, nel suo coraggioso one-woman show «Sola me ne vo…», ritraendola così : «Una carriera magnifica nel teatro e nel cinema. Una voce e un temperamento unici. Una bellezza intramontabile. Mariangela Melato è un’icona del teatro italiano, l’ineguagliata interprete di personaggi complessi, femminilità inquiete, grandi eroine tragiche».

L’attrice milanese si è spenta a 71 anni la mattina dell’11 gennaio scorso in una clinica romana. Lottava da tempo con un tumore al pancreas, che a novembre l’aveva costretta ad annullare la tourneé dello spettacolo prodotto dal Teatro Stabile di Genova, «Il dolore», di Marguerite Duras, per la regia di Massimo Luconi. Un titolo che, oggi, pare siglare con straziante esattezza la parabola della sua esistenza.

Intelligente, ironica, anticonformista, era un’artista oltremodo riservata, che non amava parlare e far parlare di sé: «La gente di me sa quello che deve sapere. Non credo che mi ami meno perché non racconto gli affari miei». Tanto era restia a concedere interviste ai giornali, rischiando perfino di essere tacciata di snobismo, quanto era straordinariamente generosa nel donarsi al pubblico. I suoi fan lo sapevano, e la aspettavano sempre numerosissimi alla fine degli spettacoli: all’uscita dai camerini, infatti, lei si intratteneva a lungo con gli spettatori, che ringraziava dispensando a tutti baci e abbracci sinceri.

Perfezionista e rigorosa nell’affrontare ogni ruolo, nel corso degli anni è riuscita a passare con impressionante disinvoltura dalla tragedia greca al musical, dal dramma psicologico alla farsa, dal teatro alla fiction televisiva. La sua eccezionale carriera (più di 50 film, quasi altrettanti spettacoli teatrali, e moltissimi riconoscimenti, tra i quali due premi «Eleonora Duse», quattro «David di Donatello», sei «Nastri d’Argento», quattro «Maschere d’oro» e due «Premi Ubu») inizia presto: figlia di un vigile urbano e di una sarta, a Milano abitava in un quartiere di artisti, e giovanissima aveva studiato pittura all’Accademia di Brera, disegnando poi manifesti e lavorando come vetrinista alla Rinascente per pagarsi i corsi di recitazione di Esperia Sperani all’Accademia dei Filodrammatici.

Pur non avendo nessun rapporto di parentela con la celebre Maria Melato, grande primadonna del teatro italiano tra le due guerre, forse beneficia di quel cognome prestigioso. Entra nella compagnia Il carrozzone di Fantasio Piccoli non ancora ventenne, e con lui esordisce al Teatro Stabile di Bolzano in «Piccola città» di Thorton Wilder nel 1961. La sua vocazione comica emerge subito dopo con un Dario Fo già molto popolare, in «Settimo: ruba un po’ meno» e «La colpa è sempre del diavolo».

La dirigono poi alcuni tra i più ammirati nomi del teatro italiano, come Luchino Visconti nella «Monaca di Monza» di Giovanni Testori e nell’«Inserzione» di Natalia Ginzburg, e Giorgio Strehler, che la chiama per la riedizione di «El nôst Milan» di Carlo Bertolazzi. Determinante l’incontro con Luca Ronconi, con il quale condivide l’eccezionale avventura dell’«Orlando furioso» di Ludovico Ariosto: più di 40 attori in scena, tra i quali la Melato impersona, con un registro che spazia dal drammatico al grottesco, Olimpia, la figlia del re d’Olanda. Nel 1974 è Cassandra in una storica edizione dell’«Orestea» di Eschilo e, ancora, la bambina Maisie di Henry James e la protagonista pluricentenaria dell’«Affare Makropulos».

Versatile ed eclettica, sa anche ballare e cantare, e non disdegna una commedia musicale di Garinei e Giovannini, «Alleluja brava gente», nel 1971. Non mancano ruoli ardui come Medea e Fedra, la tormentata Ersilia Drei del pirandelliano «Vestire gli ignudi», la caparbia istitutrice di «Anna dei miracoli», una strepitosa Blanche nella versione di Elio De Capitani di «Un tram che si chiama desiderio» di Tennessee Williams, ma anche «La bisbetica domata» di Shakespeare, «Il lutto si addice ad Elettra», «La dame de Chez Maxim», «Madre Coraggio», fino a «Chi ha paura di Virginia Woolf?», nel 2005, accanto a Gabriele Lavia in un vero e proprio scontro tra titani.

Ma Mariangela deve la sua notorietà presso il grande pubblico soprattutto al cinema. Nel 1969 debutta con un film di Pupi Avati, «Thomas e gli indemoniati», e, due anni dopo, recita in «Per grazia ricevuta» di Nino Manfredi. Alterna ruoli drammatici e comici: è accanto a Gian Maria Volontè in «La classe operaia va in paradiso (1971) e in «Todo modo» da Sciascia (1976), entrambi di Elio Petri; è Mara in «Caro Michele» di Mario Monicelli (1976); è diretta da Giuseppe Bertolucci in «Oggetti smarriti» (1979), «Segreti segreti» (1985), e «L’amore probabilmente» (2001).

Il sodalizio più fortunato è certo quello con Lina Wertmüller, grazie a pellicole come «Mimì metallurgico ferito nell’onore» (1972), «Film d’amore e d’anarchia» (1973) e «Travolti da un insolito destino» (1974), di cui è impossibile dimenticare la recitazione, affidata in gran parte, sia dalla Melato che da Giannini, alla potente, eloquentissima espressività degli occhi.

Dagli anni Novanta Mariangela appare anche sul piccolo schermo: dopo il successo di«Una vita in gioco», due episodi rispettivamente diretti da Franco Giraldi (1991) e Giuseppe Bertolucci (1992), recita in «Due volte vent’anni» (di Livia Giampalmo), tratto dall’omonimo romanzo di Lidia Ravera. Recentemente, ha interpretato la terribile signora Danvers in «Rebecca, la prima moglie», regia di Riccardo Milani (2008) e ha regalato ai telespettatori una intensissima «Filumena Marturano» (2010), con Massimo Ranieri, andata anche in replica su Raiuno nel giorno di Capodanno.

Ogni immagine del suo volto porta con sé il ricordo della sua voce inconfondibile, ora imperiosa e graffiante, ora morbida e seducente: nessuno ha mai osato né pensato di imitarla o di emularla. Impossibile anche metterla a paragone con altre attrici del cinema e del teatro italiani, perché Mariangela Melato è, e resterà sempre, un unicum. Oltre che per il portentoso talento, per la sua rara umanità.

Erika MONFORTE



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