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Pensioni e lavoro: fare più chiarezzaSistema contributivo e flessibilità. Con l’arrivo del 2013 sono entrate in vigore le norme previste dalla riforma Fornero in tema di previdenza sociale e inserimento nel mercato del lavoro. Gli uomini potranno andare in pensione di vecchiaia solo dopo aver compiuto 66 anni e tre mesi. Per le donne l’assegno scatterà a 62 e tre mesi e poi l’età si alzerà progressivamente fino al 2018 quando l’età minima per il congedo definitivo arriverà a 66. «L’equiparazione dell’età tra uomini e donne è stato un intervento necessario che ci veniva richiesto anche dall’Unione europea. Se le donne vanno in pensione prima degli uomini hanno un vitalizio più basso, perché hanno meno contributi e perciò non viene rispettata la parità tra i sessi. Nel nostro Paese le donne sono sempre andate in prevalenza in pensione di vecchiaia e con un numero inferiore di contributi, ma alla fine hanno sempre raggiunto un’età simile a quella degli uomini, perché gli uomini riuscivano ad andare in pensione di anzianità (cioè anticipata, ndr)», spiega Paola Profeta, professore associato di Scienza delle finanze all’Università Bocconi di Milano. Differenze che sarebbe importante eliminare anche nel mercato del lavoro. «La stessa equiparazione dovrebbe avvenire durante tutto il percorso di carriera, affinché le donne possano essere ugualmente valorizzate», aggiunge. Congedi di paternità oltre che di maternità, orari di lavoro flessibili. «La mancanza di asili nido poi è il segnale più forte della carenza dello Stato sociale italiano nella spesa per famiglie: solo lo 0,15 per cento del Pil è infatti destinato a interventi diretti alla primissima infanzia», precisa la Profeta. Provvedimenti a favore della famiglia, detassazione per chi assume e facilita il reinserimento delle donne nel mercato del lavoro: questi i suggerimenti concreti per il prossimo governo in tema di parità. A partire da gennaio poi c’è il passaggio al contributivo per tutti. «Certo è stato un cambiamento brusco, ma è uno dei modi più equi per determinare il costo della contribuzione e il premio del trattamento previdenziale. Il metodo retributivo di fatto prescinde dal versato seguendo dinamiche di carriera determinate da accidenti degli ultimi anni di lavoro, piuttosto che il principio assicurativo cardine, che è una dilazione dei versamenti», spiega Maurizio Del Conte docente di Diritto del lavoro dell’Università Bocconi di Milano. Sulla vera uguaglianza tra i cittadini però bisogna ancora lavorare. «È un sistema più equo che mantiene in equilibrio le casse di previdenza e che si apre alle nuove aspettative di vita. Si lavorerà di più e si percepirà la pensione per più tempo. Ma accanto a questa riforma deve partire una più seria attuazione della previdenza complementare per garantire a tutti un buon tenore di vita in età avanzata», commenta il professor Franco Scarpelli, ordinario di Diritto del lavoro all’Università Bicocca di Milano. Il requisito contributivo prevede inoltre almeno 20 anni di versamenti all’Istituto di Previdenza. Stop, invece, alla pensione di anzianità. Dal 2013 si può andare in pensione anticipata solo se si è in possesso di un’anzianità contribuiva di 42 anni e cinque mesi per gli uomini e di 41 e cinque mesi per le donne. «L’aumento improvviso dell’età pensionabile ha provocato la questione degli “esodati”. E questo indica che l’esecutivo, in una fase di emergenza economica, non ha tenuto conto di una serie di problemi che hanno dirette conseguenze sui cittadini. L’effetto è quello di creare un tappo in uscita e di rallentare il ricambio generazionale della forza lavoro. Una perdita di ciclo per i giovani, dunque, che avranno chance di inserimento solo all’uscita dalla crisi», aggiunge Del Conte. Proprio ai giovani è dedicata invece la Riforma del lavoro, approvata la scorsa estate. Dal 1° gennaio sono scattate nuove regole per l’assunzione. L’apprendistato diventa il canale principale di ingresso nel mercato del lavoro con una durata non inferiore ai sei mesi (tranne per le attività stagionali). Al datore di lavoro spetta poi l’onere di conferma del 50 per cento degli apprendisti assunti. Mentre per i contratti a tempo determinato aumentano le aliquote contributive pensionistiche e le pause obbligatorie tra un contratto e l’altro. «Dopo una fase in cui le imprese hanno puntato molto su modelli di competitività basate su contratti di lavoro a basso costo e precari, è importante che vengano date nuove regole per incentivare le imprese a realizzare rapporti di lavoro normali e a investire sulla stabilità e sulla formazione dei lavoratori», sottolinea Scarpelli. Un passo avanti importante, insomma, per aiutare i giovani a crearsi un futuro. «La filosofia che ha animato il ministro Fornero è stata quella di rendere più controllato l’uso dei contratti di lavoro non standard. È una scelta condivisibile anche se c’è nella legge una vistosa contraddizione con il primo contratto a termine, libero fino a un anno di durata. I contratti di lavoro precari hanno infatti, come abbiamo potuto toccare con mano, inevitabili conseguenze sul piano sociale e su quello economico. Per questo vanno resi meno costosi i rapporti di lavoro standard: così verranno preferiti dalle imprese», continua Scarpelli. Ma la vera rivoluzione è l’introduzione dell’Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego). Qui confluirà ogni tipo di tutela della disoccupazione. Il sussidio è esteso ad apprendisti, artisti e dipendenti a termine della Pubblica amministrazione. «È un nuovo sistema unitario degli ammortizzatori sociali, di carattere meno assistenziale, perché obbliga il lavoratore a seguire corsi di formazione e a cercare un nuovo impiego», aggiunge Scarpelli. I requisiti di accesso sono almeno 2 anni e 52 settimane di contribuzione nell’ultimo biennio. Durerà 12 mesi fino a 54 anni poi 18 mesi da 55 in poi. L’importo massimo è di 1.119,32 euro ed è previsto un abbattimento del 15 per cento dell’indennità dopo i primi sei mesi. È prevista poi una mini-Aspi per chi ha 13 settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi. Qualche perplessità però rimane. «La realtà ci dice che per poter funzionare le politiche di riqualificazione professionale hanno bisogno non tanto di un decreto legge che ne determini la rilevanza, quanto di una struttura organizzativa che nel nostro Paese non esiste», spiega Del Conte. Né gli uffici pubblici, né le agenzie per la somministrazione sono attrezzate, infatti, per svolgere questo tipo di attività. «È importante che il nuovo governo completi la riforma con politiche attive di reinserimento: dai corsi di formazione a una banca dati precisa in grado di coniugare domanda e offerta. Altrimenti il sistema rimane zoppo non può reggere sul lungo periodo». Dello stesso avviso anche il professor Scarpelli. «Pensare alla riqualificazione dei lavoratori e dare a tutti l’accesso agli ammortizzatori sociali è importante e sul piano teorico potrebbe essere un modello condivisibile, perché è giusto che le eccedenze di personale vengano assorbite dal mercato. Il timore però è che in concreto si producano costi sociali molto alti». Bisogna fare chiarezza su quali devono essere gli enti formativi interessati e su chi deve accompagnare i lavoratori durante il loro percorso di reinserimento. «Il nuovo sistema deve essere completato al più presto e dovrà funzionare in modo davvero efficiente. Altrimenti c’è il rischio che un domani troppi lavoratori possano essere privi di tutela, un po’ come sta avvenendo ora a proposito degli esodati», conclude.
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