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Il gran regalo di Rita Levi MontalciniRita Levi Montalcini l’ha ripetuto fino all’ultimo: «Della mia fine non mi importa, vivrò nelle cose che ho fatto». Le «cose» sono tante: la lotta per la libertà al tempo del nazifascismo, la difesa dei diritti delle donne, l’impegno pacifista, le donazioni alla ricerca, gli aiuti alle giovani donne dell’Africa, l’azione politica in Parlamento quando il presidente Ciampi nel 2001 la nominò senatrice a vita. E soprattutto la sua grande scoperta scientifica: il Nerve Growth Factor, in sigla NGF, il fattore di crescita delle cellule nervose che la portò nel 1986 a Stoccolma per ricevere il premio Nobel. Molto si è detto e scritto sulla straordinaria vita di Rita Levi Montalcini, lunga 103 anni e 8 mesi. Un po’ meno i riflettori si sono concentrati sul Nerve Growth Factor. Proviamo dunque a ricordare questa straordinaria scienziata italiana parlando della scoperta che a ragione lei stessa considerava come il suo lascito più importante. Cervello in fuga, Rita Levi Montalcini aveva attraversato l’Oceano atlantico nel 1948 sulla stessa nave che portava negli Stati Uniti Renato Dulbecco, suo compagno di studi all’Università di Torino, pure lui futuro premio Nobel per la medicina, sorte che toccherà anche a un altro loro collega, Salvador Luria (caso unico al mondo di tre allievi dello stesso maestro, l’istologo Giuseppe Levi, tutti approdati al massimo riconoscimento scientifico). Giuseppe Levi aveva affidato a Rita una ricerca sullo sviluppo del sistema nervoso negli embrioni di pollo e lei aveva affinato una straordinaria abilità manuale e visiva nello studio al microscopio delle cellule nervose appena comparivano nell’embrione. Quando dovette lasciare l’Università di Torino, cacciata dalle leggi fasciste, continuò nel laboratorio che allestì nella sua camera da letto in una casa dell’Astigiano. Il pollaio della cascina forniva le uova, lei ne estraeva l’embrione, ne studiava lo sviluppo al microscopio e per cena si friggevano grandi frittate. L’origine di questa ricerca risaliva a un articolo del 1934 di Viktor Hamburger, biologo tedesco, un ebreo emigrato in America in seguito alle leggi razziali di Hitler. Fu lui a invitarla negli Stati Uniti presso la Washington University di St. Louis, nel Missouri. Qui, tra il 1951 e il 1952, incominciò a delinearsi la scoperta del Nerve Growth Factor. Non fu un “eureka!”, una illuminazione improvvisa. Il fattore di crescita nervosa si manifestò alla mente di Rita, attenta, rigorosa e persino cocciuta, un po’ per volta, di esperimento in esperimento. Questo processo di scoperta graduale è andato avanti fino ai nostri giorni. L’NGF è un work in progress, un continuo svelarsi di nuove funzioni e connessioni biologiche. Oggi sappiamo che è implicato, oltre che nello sviluppo del cervello e del sistema nervoso, nella malattia di Alzheimer, nella memoria, in vari disturbi mentali, nel meccanismo di suicidio programmato delle cellule chiamato apoptosi, nello stress, nel sistema immunitario e persino nell’innamoramento e nell’attività sessuale. In contrasto con l’interpretazione che degli esperimenti dava il suo capo Viktor Hamburger, la Montalcini si convinse che doveva esserci un fattore biologico in grado di far moltiplicare neuroni e sinapsi quando si innestava sull’embrione di pollo un particolare tipo di tumore del topo, il sarcoma 37, e più ancora il sarcoma 180. Evidentemente, pensò Rita, il tumore liberava qualche sostanza che promuoveva «la crescita abnorme di fibre nervose». Decise allora di applicare il metodo di coltura in vitro che aveva imparato a Torino da Giuseppe Levi. Lo fece durante il trasferimento di un anno a Rio de Janeiro, nell’Istituto di biofisica diretto da Carlo Chagas. Le colture in vitro chiarirono al di là di ogni dubbio che la sua interpretazione, e non quella di Hamburger, corrispondeva alla realtà sperimentale. Tornata a St. Louis, la Montalcini iniziò a collaborare con il biochimico Stanley Cohen, che poi dividerà con lei il Nobel per la medicina per avere scoperto il secondo fattore di crescita dopo l’NGF, l’EGF, la proteina che regola lo sviluppo delle cellule epiteliali, e quindi della pelle. Cohen riuscì a identificare e caratterizzare chimicamente la sostanza che, contenuta nel sarcoma 180 del topo, promuoveva la reazione dei neuroni: così nel 1954 per la prima volta compare ufficialmente l’espressione Nerve Growth Factor. Fu ancora Cohen a scoprire che quella proteina, oltre che nelle ghiandole salivari del topo maschio adulto, si trovava in forte concentrazione nel veleno di serpente. Da allora i due ricercatori ebbero a disposizione una riserva abbondante (qualche milligrammo e non pochi milionesimi di grammo) della proteina che stavano studiando. Nei topi l’iniezione sottocutanea di NGF purificato in dosi da 15 a 20 microgrammi, osservò la Montalcini, provocava un aumento dei gangli simpatici e delle catene para e prevertebrali anche più imponente di quello che avveniva negli embrioni di pollo. Analizzando meglio il fenomeno, si capì successivamente che in realtà l’NGF agiva attraverso un effetto di inibizione del processo di suicidio programmato delle cellule, cioè contrastando l’apoptosi, come nel 1972 venne chiamato il programma genetico che mette fine alla vita delle cellule dopo un dato numero di replicazioni. Dall’apoptosi sono esenti le cellule cancerose, e ciò aprì nuove e interessanti prospettive sul ruolo dell’NGF, che, nel frattempo, si era rivelato come capostipite di una numerosa famiglia di fattori trofici (o di crescita). Inoltre l’NGF aveva dimostrato la correttezza dell’intuizione di Ramòn Y Cajal (Nobel insieme con il nostro Camillo Golgi nel 1906) circa il processo biochimico che crea e organizza le giunzioni tra i nervi e tra i nervi e i vari organi. Intanto nel 1971 Ruth Hogue Angeletti e Ralph Bradshaw avevano scoperto che la molecola dell’NGF è costituita da due catene polipeptidiche, ciascuna formata da 118 amminoacidi. Veniva poi identificato sul cromosoma 1 il gene che codifica l’NGF, nonché il recettore bersaglio della molecola, il p75 e la connessione con un peptide altamente neurotossico, il beta-amiloide, ritenuto causa primaria di malattie neurodegenerative, tra le quali l’Alzheimer. Studi posteriori al 1975 hanno documentato il ruolo dell’NGF nel modulare, oltre al sistema nervoso, anche il sistema endocrino e quello immunitario. Passano ancora dieci anni e nel 1986 uno studio, sempre eseguito sotto la guida della Montalcini, dimostra che la sintesi di grandi quantità di NGF nelle ghiandole salivari sottomascellari del topo maschio adulto sono sotto il controllo del testosterone, l’ormone del desiderio sessuale. Si arriva per questa via agli sviluppi più recenti, che indicano una maggior produzione di NGF durante l’innamoramento, negli stati di ansia, nello stress e nell’espressione dell’aggressività. Recente è anche l’approfondimento dei rapporti tra NGF e monociti, linfociti T, neutrofili, eosinofili e basofili, tutte componenti del sangue che vengono espresse dal sistema immunitario. Non solo. L’NGF si è dimostrava anche correlato con la maggiore sensibilità al dolore delle ferite ancora aperte e con la cicatrizzazione: uno studio svolto in collaborazione con il professor Simone Teich (Torino, Centro grandi ustionati) ha puntato al contenimento tramite NGF del tessuto cicatriziale che spesso deturpa chi riesce a guarire da gravi ustioni. Gli ultimissimi lavori riguardano l’NGF e due patologie molto diverse ma entrambe di grande importanza: le neuropatie di origine diabetica e le ulcere della cornea da herpes o traumatiche. Lesioni di questa parte dell’occhio vengono curate oggi con somministrazioni locali di NGF, a riprova della sua sorprendente flessibilità. Una storia lunga sessant’anni e non ancora finita. «Le ricerche sull’NFG», ha detto Lamberto Maffei, neuroscienziato e attuale presidente dell’Accademia dei Lincei, «hanno dominato la mente di migliaia di scienziati che nei laboratori di tutto il mondo hanno continuato i suoi studi e hanno portato nuove conoscenze e un cambiamento di paradigma epocale nello studio del sistema nervoso. L’NFG e altri fattori neurotrofici scoperti più recentemente sono diventati il centro dell’interesse per lo studio del cervello in condizioni sia fisiologiche sia patologiche. Anche recentemente gli allievi della Montalcini, tra i quali sono anch’io, hanno cercato di applicare i suoi insegnamenti per la prevenzione e la cura della demenza senile, e in particolare della malattia di Alzheimer». Piero Bianucci
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