Produttività: un accordo buono solo a metà

Il 21 novembre scorso s’è avuto un grande scoppio di petardi e di fuochi d’artificio per la firma dell’accordo fra alcune associazioni imprenditoriali e alcune organizzazioni sindacali dei lavoratori, pomposamente definito come «Accordo sulla produttività (e la competitività)».

Come spesso avviene, questi fuochi d’artificio e petardi sono stati fatti scoppiare o da persone comandate o da persone che non avevano letto bene l’accordo stesso. Dico questo perché quest’ultimo è solamente un accordo volto a incentivare la contrattazione sul lavoro di secondo livello, rinviando ad essa la pattuizione di elementi retributivi che siano collegati a incrementi di produttività del lavoro e/o redditività dell’impresa e prevedendo generici meccanismi di detassazione e di decontribuzione sugli incrementi retributivi definiti in sede di contrattazione di secondo livello. Nell’accordo in parola si rimane nel vago per quanto riguarda le azioni capaci di stimolare effettivamente la crescita della produttività: un cenno a «istituti contrattuali che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro»; dichiarazioni d’intenti generiche sulla necessità del miglioramento del «sistema scolastico e formativo che punti concretamente all’occupabilità delle persone», con l’auspicio di un «miglior coordinamento tra il sistema della formazione pubblica e privata», e si potrebbe continuare con tante altre similari dichiarazioni generalistiche d’intenti e di auspici corrette, ma che fanno riferimento a generici indicatori di produttività e di redditività d’impresa che rasentano la scoperta dell’acqua calda.

In altre parole, l’accordo riguarda non tanto le vie attraverso le quali spingere la crescita della produttività quanto piuttosto il livello contrattuale cui affidare la ripartizione degli incrementi di produttività fra salario e profitto. Ma la crescita della produttività è veramente ciò che sostiene il sistema economico? In effetti la crescita della produttività per ora di lavoro costituisce la quintessenza della crescita di un’economia. Un’economia cresce se cresce il prodotto per persona e questo può crescere essenzialmente se cresce il prodotto per ora di lavoro. Più precisamente, se il prodotto per ora di lavoro aumenta, si può aumentare il salario nominale nella stessa misura lasciando invariato il costo del lavoro per unità di prodotto, e quindi il grado di competitività dal lato del costo del lavoro. Anche se lo stesso avverrebbe se gli incrementi di produttività del lavoro lasciassero immutata la retribuzione annua in presenza di una proporzionalmente uguale diminuzione delle ore di lavoro. Nel primo caso opererebbe il meccanismo distributivo per cui, in presenza di un aumento del prodotto, i lavoratori occupati si appropriano totalmente della maggior quantità di prodotto attribuito ai lavoratori; nel secondo caso i lavoratori occupati non avrebbero beni in misura maggiore, ma, riducendo le loro ore di lavoro, lascerebbero che la maggior quantità di beni prodotta andasse a coloro che, a orario immutato, non potrebbero lavorare.

Il collegamento preciso fra dinamica della produttività oraria del lavoro e dinamica dei salari nominali costituisce in effetti la “regola aurea” di un certo tipo di politica dei redditi (quella che cerca di evitare spinte sui prezzi dal lato del costo del lavoro), che ha ben poco aspetto di “patto sociale”, il quale invece dovrebbe avere quale obiettivo la costanza o la variazione, in una direzione condivisa dalle parti, della quota del prodotto attribuito al lavoro, il che coinvolge il rapporto fra produttività del lavoro e salario reale, cioè salario nominale diviso per il livello medio dei prezzi (“reale”, in economia, non significa “non immaginario”, anche se ha lo stesso etimo, bensì in termini di potere d’acquisto delle cose; da res, quindi relativamente al livello dei prezzi dei beni).

Ora, per la crescita della produttività sono sufficienti strumenti d’incentivazione fiscale per la diffusione della contrattazione di secondo livello e l’estensione delle retribuzioni variabili tramite la contrattazione di secondo livello? Evidentemente no. Queste possono risultare efficaci solo se creano le premesse per l’introduzione di meccanismi di collegamento fra retribuzioni e risultati d’impresa centrati su: innovazione tecnologica e organizzativa interna alle imprese; innovazioni di prodotto e, soprattutto, di qualità; nuove tecnologie di produzione basate sulle Ict; nuovi disegni organizzativi dell’impresa e del lavoro; processi formativi di valorizzazione e responsabilizzazione delle risorse umane; di coinvolgimento e partecipazione dei lavoratori e delle loro rappresentanze nell’organizzazione del lavoro e della produzione. Inoltre, la strategia che tende a far crescere il ruolo della contrattazione di secondo livello, aziendale, a scapito di quella di primo livello, nazionale, fa correre il rischio di determinare un’ulteriore riduzione delle protezioni e delle tutele, che solo il contratto nazionale garantisce ai lavoratori.

A monte di tutte questi ragionamenti non può però non esserci una considerazione su ciò che è bene per la comunità economico-sociale, cioè sul “bene comune”, sapendo ben distinguere fra obbiettivi finali (le “cose buone” che veramente contano) e obbiettivi intermedi (e strumenti), non lasciandosi allontanare dai primi per correre dietro ai secondi.

Ora, i contratti collettivi di lavoro nazionali o territoriali portano a livelli retributivi calibrati sui livelli della produttività media del settore; i contratti di lavoro aziendali sono calibrati sui livelli della produttività aziendale. I primi risentono di un afflato egualitario fra i lavoratori e avvantaggiano le imprese con maggiori livelli di produttività (godono di un livello di produttività superiore alla media, ma pagano retribuzioni commisurate ai livelli medi di produttività: i loro costi del lavoro per unità di prodotto risultano contenuti rispetto a quelli delle imprese con livelli di produttività più bassi); i secondi più probabilmente portano a un livellamento interaziendale del costo del lavoro per unità di prodotto, ma ampliano la distribuzione dei livelli del costo del lavoro per unità di lavoro.

I contratti nazionali o territoriali di lavoro vanno nella direzione di creare spazio per la finalità produttiva (poiché premiano le aziende più produttive) e di attuare una distribuzione dei redditi fra i lavoratori più egualitaria: nelle aziende con maggiore produttività portano alla redistribuzione dei redditi a favore del capitale rispetto al lavoro, quindi favoriscono l’accumulazione di nuovo capitale capace di sostenere bene la crescita dal lato dell’offerta; dal lato della domanda, contribuiscono al sostenimento di un buon livello della domanda di beni di consumo, poiché portano a una più equa distribuzione del reddito fra i lavoratori e ciò, in presenza della “legge psicologica del consumo”, secondo la quale la propensione marginale al consumo decresce col crescere del valore assoluto del reddito disponibile, fa sì che un euro tolto a chi ha più reddito per darlo a chi ne ha di meno faccia aumentare la propensione al consumo della collettività.

Nel complesso, i contratti collettivi nazionali o territoriali paiono andare maggiormente nella direzione del “bene comune”, intendendo come “bene comune” la situazione in cui si ha, oltre alla creazione di un ambiente sociale che favorisca lo sviluppo integrale e l’espressione delle capacità delle persone, un’adeguata disponibilità per tutte le persone di beni di consumo di elevata qualità per la persona e la collettività; quindi beni distribuiti in modo sufficientemente equo e rispetto alla quale è anche necessario, in via strumentale, che vi sia un corretto equilibrio fra consumi e investimenti, affinché tale disponibilità sia sostenibile, cioè destinata a durare nel tempo; ricordando peraltro che non è sostenibile il processo di creazione di valore economico se non c’è una parallela creazione di progresso delle persone, di valore umano.

Daniele Ciravegna

 



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