Natale 1946, "il nostro tempo"

Crisi economica preoccupante, tensioni all’interno dei partiti, casi di corruzione nella pubblica amministrazione, conflitti armati sull’altra sponda del Mediterraneo: l’autunno del 1946 portava ancora i segni della guerra da poco terminata e, a Torino, un gruppo di cattolici, preti e laici, si propose di pubblicare un nuovo giornale per dare voce alle discussioni che animavano la Chiesa e per intervenire sulle questioni più urgenti dell’attualità.

La sfida non era irrilevante, sia per l’ambizione del progetto, sia per la scarsità di risorse finanziarie a disposizione. Si trattava di un piano che intendeva raccogliere le forze intellettuali cattoliche presenti in città, con l’obiettivo però di parlare a lettori sparsi in tutta Italia. Dopo settimane di intensi incontri in vista dell’uscita del primo numero del giornale, il 14 dicembre 1946 nelle edicole e nelle parrocchie comparve il settimanale «il nostro tempo», con la firma del direttore don Carlo Chiavazza. Questo giovane prete, nato a Sommariva Bosco nel 1914, era stato cappellano degli alpini durante la tragica ritirata di Russia e, dopo la guerra, era stato coinvolto nella redazione del quotidiano democristiano «Il Popolo Nuovo».

Per la realizzazione de «il nostro tempo», su sollecitazione di Giuseppe Garneri, parroco del Duomo e direttore dell’Opera diocesana preservazione della fede, si erano ritrovati insieme a Chiavazza esponenti dell’Azione cattolica e del Movimento laureati, già attivamente impegnati in città, alcuni dei quali avevano partecipato alla Resistenza. Il giurista Giuseppe Grosso, gli ingegneri Andrea Ferrari Toniolo e Cesare Codegone, il dirigente industriale Aldo Valente e preti aperti alle questioni sociali e alla riflessione culturale, come don Vincenzo Arcozzi Masino e il domenicano padre Enrico di Rovasenda, diedero il proprio contributo di idee e di energie insieme all’economista Silvio Golzio, all’avvocato Eugenio Minoli e al sindacalista Armando Sabatini, vicini alle posizioni politiche di Giuseppe Dossetti.

Le competenze presenti nel gruppo iniziatore de «il nostro tempo» garantivano una solida base di partenza alla nuova impresa editoriale, che nei mesi successivi si segnalò per la sua capacità di intervento puntuale all’interno di una situazione politica e sociale di grande incertezza e di rapido cambiamento. Segnale di questa attenzione alle trasformazioni sociali e ai fermenti culturali presenti nel Paese uscito dal conflitto fu il ruolo importante svolto all’interno del giornale da alcune donne intellettuali, tra cui Augusta Grosso, Camilla Codegone e Bona Alterocca: particolarmente interessate alle nuove tendenze della letteratura non soltanto italiana, coinvolsero nella stesura del giornale altre firme femminili che mostrarono spiccata attenzione per il contributo delle donne allo sviluppo della società.

Proprio la pluralità di voci ha caratterizzato «il nostro tempo» nei suoi sessantasei anni di attività, ospitando, nelle sue fitte pagine, editoriali politici e novelle brevi, recensioni dei romanzi recenti e analisi della situazione religiosa in Italia e nel mondo. Nonostante i perduranti problemi finanziari di un giornale che si basava in parte notevole sulla dedizione, spesso gratuita, di molti collaboratori, i riconoscimenti non tardarono. Nel 1948, fu definito dalla presidenza generale dell’Azione cattolica italiana «il migliore» tra i periodici cattolici, tra i pochi «giornali moderni, adatti alle condizioni dell’apostolato e ben diretti», giudizio ripetuto pressoché identico sessant’anni dopo da un’inchiesta promossa dall’Università cattolica.

La varietà di contributi presenti sul settimanale torinese era non soltanto il riflesso delle diverse professionalità dei collaboratori, fra i molti altri piace ricordare Giorgio Calcagno, ma anche della scelta di dare conto delle differenti tendenze presenti nel cattolicesimo italiano. Più che una sintesi uniforme, la direzione di don Chiavazza intendeva proporre ai lettori la diversità di posizioni presenti nella Chiesa, correndo per questo qualche rischio: più che un inerte bastimento ancorato in acque sicure, il settimanale apparve negli anni un agile vascello impegnato a seguire un’ondeggiante rotta di navigazione tra le animate e contrastanti correnti del cattolicesimo italiano.

Era però questa la sfida che «il nostro tempo» aveva scelto di raccogliere. Per don Chiavazza e per i suoi successori alla guida del settimanale (Domenico Agasso dal 1982 e Beppe Del Colle dal 1990, con la collaborazione, sempre più fattiva di Mariapia Bonanate), i lettori non avevano (e non hanno) bisogno di risposte confezionate e pronte all’uso, quanto di strumenti utili a formarsi un personale giudizio sulla realtà, basato su alcuni irrinunciabili punti di riferimento continuamente richiamati dal giornale: l’equilibrio, non sempre facile da conservare, tra spinte innovatrici e obbedienza alla gerarchia fu, infatti, mantenuto dal giornale attraverso la puntuale proposizione dei principi della dottrina sociale cattolica e della fedeltà dichiarata alle indicazioni dei vescovi.

I dibattiti non mancarono e anche le critiche, accentuati dalla diffusione nazionale del settimanale e dall’autorevolezza acquisita numero dopo numero. Negli anni Cinquanta, comparvero articoli in difesa del personalismo cristiano di Jacques Maritain, nonostante che il filosofo francese fosse accusato da settori della curia vaticana di pericolose “deviazioni” dottrinali. Le riflessioni di don Primo Mazzolari, di padre David Maria Turoldo e di padre Marie-Dominique Chenu, osservate spesso con sospetto dal cattolicesimo “ufficiale”, trovarono spazio più volte sulle colonne del settimanale, come anche le esperienze innovative che stavano maturando nella Chiesa, dai cappellani del lavoro ai preti-operai, di cui puntualmente diede conto il prete pinerolese don Giovanni Barra. La sensibilità dimostrata da «il nostro tempo» per i fermenti del rinnovamento cattolico fece sì che le novità portate dal Concilio vaticano II fossero immediatamente recepite dal giornale, che contribuì in modo rilevante alla diffusione nella Chiesa italiana dello spirito di aggiornamento.

Fermamente convinto della necessità di sostenere l’unità politica dei cattolici, «il nostro tempo» appoggiò con continuità la Democrazia cristiana, pur rilevandone periodicamente alcune mancanze e lentezze. In ogni caso, anche i giudizi del giornale cattolico torinese sulle questioni politiche non passarono inosservati. Deciso oppositore di qualsiasi cedimento al comunismo, il settimanale fu a volte, per questo, rimproverato di dare spazio alle voci più conservatrici della Dc, ma, più spesso, fu accusato duramente di parteggiare per le posizioni di “sinistra” all’interno del partito: in realtà, «il nostro tempo» si assestò su una linea di cauto riformismo, senza balzi in avanti considerati dalla redazione eccessivamente avventati, ma dimostrando costante preoccupazione per le scelte che riducevano gli spazi di partecipazione democratica nel Paese. Tale apertura fu confermata dall’interesse mostrato stabilmente per le vicende internazionali, anche in questo apparendo in controtendenza rispetto all’orizzonte dentro cui si muoveva molta parte della stampa cattolica italiana, spesso ripiegata sulla cronaca locale o tutt’al più su quella nazionale.

Giornale «cattolico», «il nostro tempo» non è mai apparso una testata clericale e neanche si è attardato su posizioni tradizionaliste. La volontà di confrontarsi con la società è rimasta il rovello del settimanale, dal 1946 in avanti. Settimana per settimana, sulle colonne del giornale sono passate la cronaca e la storia, osservate con la curiosità e con la convinzione che don Chiavazza ricordava programmaticamente nel suo primo editoriale: «La civiltà cristiana e il mondo moderno non hanno fatto divorzio ma cercano, nei valori essenziali, il punto di appoggio, la leva che può far risolvere la crisi e far splendere “la seconda civiltà del Vangelo”».

Marta Margotti

 



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