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Cinzia ritorna in un raggio di luceSiamo partiti dal Lacor Hospital, diretti al dispensario di Amur, nel Nord Uganda, in una di quelle mattine africane che si portano addosso l’odore acre della terra che passa di colpo dal buio alla luce. Noi sulla Land Rover, guidata da fratel Elio Croce, abbagliati e rapiti dalle distese di verde che si propagano all’infinito, seguiti da un’ambulanza con il dono prezioso di una vita e di una storia da riconsegnare alle sue radici miracolosamente ritrovate. Una storia iniziata anni fa, nel villaggio di Pagak, dove, strada facendo, abbiamo sostato e vissuto un’esperienza che mi è rimasta nel cuore con il profumo di un sortilegio. All’improvviso, come dal nulla, dietro l’erba alta della savana, impenetrabile e deserta di abitanti, sono comparse a sorpresa alcune capanne circolari, con il tetto di paglia e le pareti di fango e bambù, tipiche dei villaggi acoli. Subito uno stuolo di bambini, vestiti con poco, i più piccoli uno straccetto sul pancino rigonfio, gli occhi ridenti di gioia e di curiosità, per quei munu (“bianchi” nella lingua locale) che vengono da lontano. Dietro di loro, le mamme e le nonne, accoglienti, felici per quella visita, annunciata e tanto attesa, di brother Elio e dei suoi amici. Dalla capanna centrale, imponente e dignitosa, come sa esserlo la donna africana, anche nelle situazioni più povere, è uscita Atek Gelsomina, un sorriso che le distendeva le rughe del volto antico, scolpito dalla fatica. Fra le sue braccia un bellissimo bimbo che cercava di nascondere il viso sulla sua spalla. Profumava di sapone, era stato lavato di fretta in una tinozza per onorare gli ospiti. «E’ la nonna della nostra Cinzia», dice fratel Elio, prendendo dall’ambulanza, fra le sue braccia nodose e avvolgenti, divenute una tenera e calda culla, una bimba cerebrolesa, gli arti rattrappiti, che sorride ed emette gridolini acuti. Attorno al piccolo corpo, offeso dalla malattia, c’è come un alone di luce che arriva da uno sguardo innocente dove è rimasto impigliato il mistero di una vita “altra”. Atek Gelsomina, un po’ intimidita, ma ferma, appoggia sul suo grande seno quella nipotina che vede per la prima volta e di cui ignorava l’esistenza. Lo fa con la spontaneità e la dolcezza di una maternità istintiva, segnata da tanti dolori e drammi, ma anche da una fiera e coraggiosa volontà di non arrendersi mai. Non chiede nulla al missionario comboniano che gliel’ha messa fra le braccia. Guarda la bimba con amore, senza stupori. La tiene su di sé, come un dono prezioso nella sua fragilità di piccolo ramo spezzato fin dalla nascita. Si avverte fra di loro una vibrazione di reciproca appartenenza che non ha bisogno di parole. In quel piccolo spazio di terra polverosa, su cui si affacciano le capanne, con nel centro un cumulo, la tomba di un bimbo, sta accadendo qualcosa di sacro. Qualcosa di grande, orchestrato direttamente dal cielo che ci ha portati lì, a vivere un momento unico, magico, che rimarrà a tenerci compagnia nella memoria. In quest’angolo di mondo che non è segnato in nessuna mappa geografica, la sopravvivenza è continuamente a rischio. Si nasce e si vive con fatica, si muore per una piccola infezione, un attacco di malaria, dissenteria, denutrizione, una morsicatura di serpente. L’ospedale è lontano, ore di strada a piedi, non sempre è possibile raggiungerlo in tempo. E quando non ci si mette la natura con le sue difficoltà e le sue calamità, ci pensa l’uomo con crudeltà e violenze inaudite a scatenare drammi e sofferenze. Come quella notte terribile della primavera del 1996, il giorno esatto nessuno lo ricorda, non esistono calendari, ma solo il sorgere del sole e le fasi della luna. In quella notte buia si è scatenato l’inferno. Sono piombati, come uccelli predatori, i guerriglieri di Kony, il folle e spietato capo del Lra (Lord’s Resistance Army ), «Esercito di Resistenza del Signore», che si proclamava inviato da Dio a liberare il Paese dagli «usurpatori» che appartenevano ad un’altra tribù. Per quasi trent’anni, ha massacrato il Nord Uganda con le sue stragi. Ha razziato, ucciso, rapito bambini e ragazze, incendiato le capanne e raso al suolo i villaggi. Ha lasciato dietro di sé un fiume di sangue. A Pagak i ribelli distruggono tutto quanto trovano. Ad Atek Gelsomina portano via cinque figli, destinati ad uccidere o a essere uccisi, se si rifiutano di eseguire gli ordini. Il maggiore ha dodici anni. Di loro non si è saputo più niente, fino all’agosto scorso, quando è accaduto un fatto incredibile. A Gulu, capoluogo del Nord Uganda, c’è un’organizzazione, Gusco (Support the Children Organisation), che accoglie i bambini soldato che sono stati catturati o sono riusciti a fuggire, per aiutarli a reinserirsi nella vita normale e superare i traumi di quanto hanno vissuto. Un’associazione umanitaria le consegna, dopo varie peripezie, un bimbo di tre anni, Joel Wokorac. Porta con sé una lettera nella quale il padre, un guerrigliero del Lra, indica il villaggio e la famiglia di origine del figlio. Ma scrive anche di avere saputo che un’altra sua figlia, una bimba cerebrolesa di due anni, affidata dallo stesso Kony, durante gli ultimi colloqui di pace con i ribelli all’arcivescovo di Gulu, mons. John Baptist Odama, è stata poi portata dall’Unicef da Juba ad Entebbe e affidata, anche lei, alla Gusco. L’organizzazione, preoccupata per la gravità delle condizioni della bambina, la consegna alla Consolation Home, la comunità accanto all’orfanotrofio, nella quale fratel Elio accoglie i disabili che nessuno vuole, raccolti per strada e nei villaggi, dove spesso sono abbandonati dalle stesse famiglie. Quella bimba é Cinzia. «Ce l’hanno portata nel dicembre 2008, due settimane prima di Natale. Era una bambina bellissima, piangeva, rideva, non era capace di mangiare da sola, non camminava, ma il suo corpicino era sensibile, rispondeva alle carezze. Chiedeva affetto, seguiva con uno sguardo vivace quanto le accadeva attorno, come volesse richiamare la nostra attenzione e dirci: “Sono qui con voi e vi voglio bene”. Nella sua fragilità e impotenza è diventata una presenza che riscaldava i cuori. Per noi è stato come fosse arrivato Gesù Bambino in carne ed ossa, subito l’abbiamo amata con tutte le nostre forze», ricorda fratel Elio e ancora gli brillano gli occhi per la commozione di quel momento. Mi vengono in mente le parole di Dietric Bonhoeffer, il grande teologo che sfidò Hitler e pagò con la vita: «Presso la culla a Betlemme , non c’era nessun prete, nessun teologo. Eppure tutta la teologia cristiana ha la sua origine nella meraviglia di tutte le meraviglie, nel fatto che Dio divenne uomo, in tutta la sua luminosità della santa notte. E’ lì che arde il fuoco dell’insondabile mistero della teologia cristiana». Una vicenda, quella di Cinzia, che sembra guidata da una stella cometa, impietosita da tanti calvari. Perché il padre dei due bimbi è il maggiore dei figli di Atek Gelsomina, rapito sedici anni fa dai guerriglieri. I due fratellini, riuniti da un destino che ha attraversato una guerra feroce e fratricida, sono divenuti l’ultimo anello che salda due esistenze misteriosamente sopravvissute e ricongiunte. La luce ha vinto il buio, la vita è stata più forte della morte. Lo si è avvertito nel rito che i nonni della bimba, insieme con gli abitanti del villaggio, hanno voluto compiere, fedeli ad un’antica tradizione. Una suggestiva cerimonia di riconciliazione che il clan tramanda di generazione in generazione, prima di riammettere nel villaggio le persone che sono state lontane a causa di situazioni violente Nel sole di mezzogiorno, che aveva avvolto le capanne in una luce intensa, nel silenzio che gli stessi bimbi rispettavano, erano arrivati anche gli uomini dai campi, sono stati posti sul sentiero di terra rossa che porta fuori dal villaggio un bastone,un fascio di erba, un uovo, simbolo dei gravi ostacoli che impedivano il ritorno di Cinzia. Atek Gelsomina, con la nipotina fra le braccia, si è inginocchiata con solennità, ha frantumato l’uovo con il piedino della bimba, mentre uno degli zii ne raccoglieva con cura i frammenti per buttarli via, lontano nei campi. «E’ un gesto rituale di purificazione. Insieme con i resti dell’uovo si vuole buttare via tutto il male che quell’uovo simbolicamente conteneva e che aveva colpito Cinzia, che ora può essere riaccolta e ritornare a fare parte della sua famiglia», ha spiegato fratel Elio, che da quarantun anni cammina nelle strade accidentate di questo pezzo d’Uganda, divenuta la sua terra d’elezione, per condividere con la gente, divenuta la sua gente, sofferenze e attese. Il suo grande cuore, la sua fede nel Dio che mai ci abbandona, la sua passione per l’umanità ferita e dimenticata, ne hanno fatto un gigante dell’amore che ha sfidato ogni genere di pericoli mortali, come quando soccorreva, a rischio della vita, i feriti, sia dei ribelli che dell’esercito, e seppelliva i morti dopo le stragi. Non ha mai abbandonato la speranza che la luce possa sconfiggere le tenebre del male, neppure nei momenti più drammatici, anche quando tutto pareva ormai irrimediabilmente distrutto dalla violenza fratricida e lo stesso Lacor Hospital era a rischio di chiusura. Una speranza che ora trovava conferma fra queste capanne di Pagak, distrutte e poi ricostruite, dove il passato continua miracolosamente a riaffiorare con la forza della vita che continua. Esce dal gruppo delle donne, Maddalena, la seconda moglie del nonno di Cinzia, si avvicina a Dominique Corti e l’abbraccia: «Ma tu sei Atim, la figlia di min Atim» (Atim in acoli significa «nata via da casa» e min «mamma»). E ricorda, commossa, di averla conosciuta bambina, accanto alla sua mamma, al Lacor Hospital, dove era andata ad accompagnare la figlia della prima moglie che aveva il morbillo. Maddalena in quel momento era incinta. Lucile Corti, preoccupata, le aveva spiegato come fosse pericoloso in gravidanza accudire a un bambino con una malattia infettiva e le aveva consigliato di allontanarsi e di andare a cingersi i lombi con una certa erba medicamentosa, evitandole così di procurare gravi danni al futuro neonato. Nelle parole di Maddalena non c’è solo riconoscenza, ma un legame, che il tempo non ha allentato, con quell’ospedale e quel medico che per lei, come per migliaia di persone, sono stati non solo l’unica speranza di salvezza, ma, prima ancora, una grande famiglia alla quale sentono di appartenere. Lo manifestano nelle parole e nei gesti affettuosi anche le altre persone che si sono radunate attorno a Cinzia , piccolo angelo con le ali ferite che sorride accanto al fratellino ritrovato e restituito dal padre soldato come messaggero d’amore, alla famiglia e al villaggio. A tutti noi. Mariapia Bonanate
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