Musica soffio vitale

In un precedente libro, «Gli spazi dell’anima» (Bollati Boringhieri, pp, 243, euro 18,50), Lionello Sozzi aveva restituito all’interiorità il ruolo fondante dell’arte, perché è proprio quel soffio di vento, l’ànemos, ad alimentare la fiamma che ha permesso a poeti, pittori e musicisti di testimoniare l’impalpabile essenza di un’altra dimensione con opere che sfuggono alle leggi della «ragione tutta dispiegata».

È questa la premessa per comprendere la natura dei suoi ultimi libri, un viaggio tra le pagine scritte, le tele dipinte e le note musicali, non tanto per dimostrare l’indimostrabile, ma per dare un senso corale alle «chimere» («Il paese delle chimere», Sellerio, 2007, pp. 415, euro 24,00), alle illusioni nella loro forma più alta.

Il libro di oggi, «Perché amo la musica. Ricordi, riflessioni, emozioni» (Le Lettere, pp. 140, euro 15,00), attribuisce all’ideale fisionomia di quel soffio vitale una voce fatta di suoni: il codice espressivo per eccellenza, irriducibile a un ordine di realtà tangibile, ma fatto di grammatiche e sintassi che non hanno bisogno di traduttori per farsi comprendere. La sola conoscenza possibile per chi ascolta senza strumenti, infatti, è racchiusa nella sensibilità individuale, nella sostanza dell’anima che la accoglie come una presenza familiare, amica: una scorta fida nel tormentato percorso della realtà visibile.

Solo uno studioso di sterminata cultura e acuta sensibilità come Sozzi poteva avventurarsi in una selva come quella cui abbiamo accennato, con la leggerezza di infiorescenze che scaturiscono da un terreno fertile e consolidato. Al suo curriculum, che annovera una sterminata bibliografia, e alle cariche di professore emerito dell'Università di Torino, di socio corrispondente dell'Accademia nazionale dei Lincei, di membro dell'Accademia delle scienze di Torino, dell'Académie de Savoie, infatti, bisognerebbe aggiungere la capacità di forgiare una scrittura che avvince e seduce, come se scaturisse direttamente dagli “spazi dell’anima” per svelare l’essenza della memoria.

Il tessuto fonico della sua prosa ha così lo stesso potere della musica, quello di risvegliare l’immaginazione e i ricordi, liberandoli dai ceppi del tempo perduto e, al tempo stesso, di strappare i secoli letterari, filosofici e musicali, che lui orchestra con la confidenza di un amante, dalla tomba delle antologie. Nel vento della sua scrittura, allora, si assiste all’”alzati Lazzaro” di tutti coloro che, apparentemente assenti, continuano a vivere in un rapporto dialogico che li rende familiari anche ai suoi lettori: la sola immortalità che la letteratura, quella vera, concede e garantisce per discendenza.

«Perché amo la musica» si apre subito alla condivisione di ricordi personali, alla «furtiva lacrima» che richiama i «rumori del vivere» e i «sovrumani silenzi», come per comunicarci che ascoltando «le sublimi armonie dei grandi creatori di musica» non è solo la qualità fisica a rapirlo, ma quel mondo immateriale e profondo capace di suscitare visioni: il poetico incanto della «metamorfosi di tutti i sensi fusi in uno», che trasformano una sostanza sonora, aerea, in un orizzonte dove emozioni e ricordi fanno riemergere inaspettate rappresentazioni del nostro più profondo essere.

A restare sospeso tra due realtà non è solo il letterato, il poeta o il melomane, ma è anche l’uomo «umile», il «modesto lavoratore», il «pastore che nel “rozzo canto” e nel suono di un flauto trova conforto… il “nocchiero” o il “solingo viator” che il canto ristora, è il prigioniero e lo schiavo che la musica conforta». I «ricordi» di Lionello Sozzi, che sono il fil rouge nell’arabesco del suo racconto, servono proprio a testimoniare che la grandezza della musica abbatte ogni barriera di censo e bastano poche note a schiudere un orizzonte di zie, di parenti, di amici e la figura della nonna Irene, in apertura, mentre ascolta il canto dei contadini al ritorno dal lavoro.

«Tutti cantano: vento, vento…», mormorava, chiedendosi perché invocassero quella voglia corale di staccarsi dal mondo e di «librarsi verso il cielo». La musica nella sua totalità, popolare o colta, per Lionello Sozzi è proprio questo: qualcosa che concorda, unisce, si fa méditation come nella «Thaïs» di Massenet, suono interno, malinconia, riflessione e soprattutto madeleine che investe le cose presenti e le passate di luce nuova. Le pagine scorrono con un ritmo narrativo che scandisce il susseguirsi di riflessi scaturiti dal «cristallo dei ritmi», testimoniando con la sua scrittura che non ci può essere grande letteratura dove si erigono frontiere fra generi e stili, tra umili e sapienti, perché quella secolare memoria non può restare impietrata nelle storie artistiche, ma deve scorrere avvinta a una vita, alle vite di chi le ha attraversate.

Per questi motivi, appena accennati, è impossibile riassumere i 34 capitoli di questo livre de chevet, che in ogni sua pagina ci riporta a una miriade di sonate diverse, capaci di riaccendere fiamme che sembravano sopite, di restituire senso e dignità agli impegni del quotidiano, anche davanti alla «sconvolgente presenza dei dati anche amari del vivere». Lionello Sozzi svela così la tessitura che tiene insieme la sua opera, per dirci come la musica possa diventare balsamo e antidoto, «quasi il conforto di una benefica rugiada». Alla fine delle sue 34 arie, che, come in un concerto universale, chiamano in causa tutte le tastiere armoniche della storia musicale, il suo arazzo mostra i fili che legano e si diramano da quest’arte, abbracciando la cultura, la società, la vita, l’universo: «Illimitata armonia» che «vince di mille secoli il silenzio».

Sotto questo mantello sonoro Sozzi fa incontrare musicisti e poeti, filosofi e mistici, critici e narratori d’ogni lingua e nazionalità, ma anche quel tempo ritrovato che unisce assenti e presenti nello stesso gomitolo di armonie.

Giovanna Ioli

 



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