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Il dubbio britannico: dentro o duori dalla UeDi ritorno da Bruxelles, il premier britannico David Cameron ha potuto manifestare alla Camera dei Comuni una certa soddisfazione personale nel dar conto dell’ultimo vertice europeo, conclusosi con un rinvio delle decisioni sul futuro budget dell’Unione, vale a dire con un nulla di fatto. Ma nello stesso tempo con quella che è sembrata una inattesa condivisione del punto di vista britannico da parte della Germania, dell’Olanda e della Svezia, tre degli Stati che insieme al Regno Unito forniscono al fondo comune molto più denaro di quanto ne ricevano. Per la prima volta, hanno osservato i politologi d’Oltremanica, la signora Merkel è apparsa assai più in sintonia con Cameron che con il presidente francese François Hollande. Il che è un segno raro d’influenza della Gran Bretagna sugli eventi continentali. Il premier si era recato al summit con il proposito di ottenere un qualche taglio (o almeno nessun aumento in termini reali) nel bilancio di previsione per il settennato 2014-2021; e disposto a usare il veto, come già aveva fatto nel dicembre dello scorso anno, se l’assemblea di Bruxelles non gli avesse dato retta. Con l’austerity vigente in casa propria, aveva spiegato, il Paese non poteva permettersi nuove spese fuori casa. Ma in verità questa intransigenza non aveva tanto a che vedere con gli affari esteri quanto con le dispute interne e i fragili equilibri del suo governo e del suo partito. La Gran Bretagna, ammessa nella comunità europea nell’ormai lontano 1970, non si é mai convinta nelle sue classi dominanti di farne veramente parte altrimenti che per il proprio interesse. Non vi si é mai ambientata, non s’é mai del tutto spogliata dei suoi modi, nostalgie e retrive pretese imperiali; retaggio misteriosamente condiviso, d’altronde, dall’animo popolare. Già nel ’75, epoca ancora quieta, il premier Wilson dovette indire un referendum per chiarire se gli inglesi volessero restare in questo nuovo organismo multinazionale, e i «sì» prevalsero con il 62 per cento. Ma da allora il tema europeo é stato strumentalizzato secondo le proprie convenienze dai partiti e dai loro notabili ansiosi di far strada. Più, naturalmente, vari demagoghi in cerca di seguaci. Nella crisi presente Bruxelles é stata qui designata e reclamizzata, soprattutto dalle destre, come la fonte di tutti i mali, a cominciare dalla crisi medesima, sebbene la City di Londra e i suoi banchieri, finanzieri e corporations, vi abbiano avuto una parte di primo piano sulla quale si preferisce sorvolare. Si é diffusa la credenza che la Gran Bretagna, memore dei fasti imperiali, starebbe meglio per proprio conto, uscendo tout court dall’Unione europea. In questa chiave ha fatto proseliti preoccupanti l’Ukip (United Kingdon Independence Party, Partito per l’indipendenza del Regno Unito) guidato dall’ex conservatore Nigel Farage, una sorta di Beppe Grillo albionico che reclama al più presto un referendum come quello del ’75. Le polemiche odierne travalicano l’ambito dei partiti tradizionali, cioè sono schieramenti d’opinione trasversali, cui vari quotidiani hanno riservato una nuova terminologia. Si chiamano «fuoristi» coloro che vogliono disertare l’Europa e «dentristi» coloro che vogliono restarci. Prima li si distingueva più elegantemente in eurofobi ed eurofili. Il problema di Cameron, leader notoriamente indeciso, é di aver troppi «fuoristi», o eurofobi, sia nell’elettorato conservatore che tra i suoi deputati o addirittura ministri; tutti a favore del referendum auspicato da Nigel Farage. Tale é in larga misura il prezzo che egli paga, col rischio di perdere il potere, per aver fatto della Ue, screditandola, il capro espiatorio d’ogni errore governativo, ossia suo. Ma il premier a ben guardare é preso tra due fuochi. Agli indipendentisti eurofobi, infatti, si contrappone l’intero establishment industriale e finanziario del Paese, i piccoli come i grandi imprenditori, consapevoli che l’uscita dall’Unione sarebbe un enorme disastro, greve di perdite d’impieghi, investimenti e interi mercati. Una prospettiva evocata, in questi giorni, anche da uomini politici di primo piano e d’ogni appartenenza, come Michael Heseltine, contestatore di Margaret Thatcher benché suo ministro (e oggi consulente di Cameron); Ed Miliband, attuale leader del partito laburista, e Tony Blair, capo del governo dal 1997 al 2009. «Negli anni del dopoguerra», ha detto Blair, «l’adesione all’Europa significava scegliere la pace. Ma nel ventunesimo secolo é una scelta tra potere e impotenza». Il divorzio dall’Unione sarebbe catastrofico per l’economia britannica e per giunta priverebbe il Paese d’ogni voce in capitolo sulla scena mondiale. «Di fronte a colossi economici emergenti quali la Cina, l’India, il Brasile, la Russia solo restando attivi nel cuore dell’Europa possiamo aver la forza di sfidarne la concorrenza». Miliband aveva espresso più o meno gli stessi concetti qualche giorno prima in un discorso alla Confederazione delle industrie sottolineando che l’estraniarsi dal Continente sarebbe «un tradimento dell’interesse nazionale». E Michael Heseltine, in una intervista al quotidiano «The Guardian», é stato il più lapidario e ottimista: «Non volevamo aderire all’Europa», ha detto, «e invece ci siamo entrati. Non abbiamo voluto l’euro, e invece prima o poi lo adotteremo». L’esito pur nullo dell’ultimo vertice, lasciando l’impressione che Londra ci abbia avuto un ruolo determinante, nonché un tacito ammiccamento solidale di Angela Merkel, é valso a Cameron un momento di tregua tra le offensive dei «fuoristi» da una parte e quelle dei «dentristi» dall’altra. In Parlamento egli ha dichiarato che intende restare nell’Unione, ma non accettarne lo status quo. Il senso preciso di queste parole è, come si dice, in grembo a Giove. Carlo CAVICCHIOLI
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