![]() Accesso utente |
Petrolio e gasCome accennato la scorsa settimana, secondo il recente World Energy Outlook dell’Agenzia internazionale dell’energia, nel giro di non più di cinque anni gli Stati Uniti potrebbero superare l’Arabia Saudita nell’estrazione petrolifera e ancor prima la Russia nella produzione di gas naturale. L’effetto congiunto esercitato dall’implementazione di soluzioni di uso razionale dell’energia condurrà poi, poco dopo il 2020, a fare degli Usa un esportatore netto di petrolio e soprattutto di gas. L’analisi dell’Aie si concentra in particolare sul fortissimo incremento della produzione di gas naturale da giacimenti non convenzionali, quelli cioè in cui il gas non è sotto pressione e quindi non fluisce autonomamente all’esterno al momento della perforazione dello strato impermeabile sovrastante, richiedendo tecniche di recupero maggiormente complesse. In termini generali, si possono osservare molteplici tipologie di giacimenti non convenzionali di gas, come ad esempio: · Il metano associato al carbone (coalbed methane). Durante il processo di formazione del carbone acqua e idrocarburi sono due prodotti della decomposizione della materia organica e, in condizioni adeguate, sono intrappolati tra gli strati di carbone in formazione. · Il gas da argille (shale gas) dove il combustibile risulta intrappolato dentro le microporosità delle rocce sedimentarie, per lo più argillose, che agiscono come una spugna molto dura. · Il metano presente all’interno di reticoli cristallini nel permafrost o sui fondali degli oceani. · Infine, i giacimenti presenti in sabbie compatte (tight sands), formazioni dotate di scarsa permeabilità (es. arenaria) in cui il gas resta intrappolato a concentrazioni relativamente basse. Nel caso degli Usa, la svolta appare imputabile essenzialmente allo sfruttamento dello shale gas, grazie all'aumento dell’efficienza delle tecniche di estrazione, in particolare attraverso l'uso combinato della fratturazione idraulica (hydrofracking) e delle perforazioni orizzontali (horizontal drilling) la cui combinazione promette effetti dirompenti a fronte della possibilità di incrementale la permeabilità del suolo e, conseguentemente, il tasso di recupero delle materie prime in giacimenti che non presentano pressione endogena. Il concretizzarsi dello scenario in discussione avrebbe effetti dirompenti sullo scenario geopolitico internazionale. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, gli Usa si sono assunti il compito di proteggere le rotte del petrolio mediorientale essenziale al loro approvvigionamento e a quello degli alleati europei e giapponesi. Due task force della Us Navy, entrambe guidate da una superportaerei a propulsione nucleare, incrociano permanentemente, alternandosi, nelle adiacenze dello stretto di Hormuz, il braccio di mare che collega il Golfo persico con il Golfo di Oman e quindi l’Oceano indiano, dove transita un quinto del petrolio prodotto sul pianeta. C’è da domandarsi in che misura questo impegno potrà continuare nel momento in cui quel petrolio non sarà più essenziale per il fabbisogno energetico degli Stati Uniti. Lo stesso discorso può essere fatto per quanto riguarda la partnership strategica tra Stati Uniti e Arabia Saudita, che ha dettato le regole del gioco geostrategico in Medio Oriente prima ancora della fine della Seconda guerra mondiale. L’impegno degli Usa a riconoscere e a proteggere militarmente il ruolo dei successori di Ibn Saud è stato compensato nei decenni dal ruolo di moderatore esercitato all’interno dell’Opec e del mercato petrolifero mondiale dall’Arabia Saudita. Un accordo di lungo termine, già seriamente minato dal ruolo giuocato negli eventi dell’11 settembre da elementi molto vicini all’entourage della famiglia reale saudita, e che potrebbe perdere di importanza, dal punto di vista statunitense una volta raggiunta la completa autosufficienza energetica. E’ ovvio che il problema potrebbe porsi soprattutto per gli altri grandi consumatori mondiali di petrolio e gas, in particolare Cina, Giappone e Unione europea, che dovrebbero fronteggiare in modo diverso, con un ruolo presumibilmente più defilato e isolazionista degli Stati Uniti, le relazioni con i grandi produttori di energia del Medio Oriente e con la Russia. C’è da chiedersi in particolare in che misura la Ue potrebbe raggiungere un livello di coesione interna sufficiente a proiettare la propria influenza nel Golfo, sostituendosi agli Usa nel ruolo di gendarme dello stretto di Hormuz, magari in condominio con il Giappone, o se viceversa questa funzione finirà per essere assunta dalla Cina che, proprio in occasione del Congresso del Partito comunista recentemente celebrato a Pechino, ha programmato un massiccio ampliamento della propria marina da guerra, nella consapevolezza che il proprio ruolo economico e politico planetario, in potenziale competizione con gli Usa, non può prescindere dalla capacità di proiezione della potenza assicurata da una marina di primo livello, dotata di grandi portaerei a propulsione nucleare, in grado di tenere il mare per anni senza rifornimento e con la potenza sufficiente a sostenere autonomamente un conflitto. In quest’ultimo caso la posizione europea potrebbe divenire estremamente delicata, con le chiavi dei propri rifornimenti energetici detenuti rispettivamente dalla Russia per il gas e dalla Cina per il petrolio. E’ pur vero che l’eccedenza di gas degli Usa potrebbe tradursi in una nuova fonte di rifornimento per l’Europa, ma il trasporto del metano via mare richiederebbe comunque investimenti di estremo rilievo nella costruzione di una flotta di navi gasiere e dei relativi impianti costieri di rigassificazione sulle coste atlantiche del nostro continente. Ed in ogni caso anche questo flusso dovrebbe ricevere una adeguata protezione E’ pur vero che il boom dello shale gas negli Usa potrebbe nei prossimi anni incontrare seri ostacoli sul fronte ambientale. Le tecniche di fratturazione idraulica e perforazione orizzontale sono estremamente invasive e determinano elevatissimi consumi di acqua che viene così perduta per gli usi irrigui e idropotabili. L’esperienza mostra però che le Amministrazioni americane di qualsiasi colore, anche quando nominalmente fautrici di un approccio più rispettoso nei confronti dell’ambiente, rimangono estremamente sensibili al nodo strategico fondamentale dell’autosufficienze energetica, e comunque sono avvantaggiate dagli enormi spazi disponibili nel continente nordamericano. Spazi che viceversa non sono disponibili nella molto più antropizzata Europa, dove l’applicazione di simili tecniche per il recupero del gas sarebbe improponibile, anche al di là delle problematiche strettamente normative. E quindi l’interrogativo resta: in che misura l’Unione sarà in grado, da qui ad un decennio al massimo, a proteggere in prima persona le rotte del petrolio qualora gli Usa perdessero l’attuale interesse a farlo (anche) per noi? (2 – fine) Antonio Abate
|