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Licei in declino rimonta il lavoro
La rivincita degli istituti tecnici sui licei: così si potrebbe definire l’insospettato sorpasso che le iscrizioni nell’anno scolastico in corso hanno fatto registrare negli istituti secondari. Per la prima volta dalla metà degli anni Novanta l’istruzione tecnica e professionale è stata infatti scelta dal 52 per cento circa degli iscritti al primo anno contro il 48 per cento degli studenti liceali. Si torna, dunque, alle scelte di studio degli anni del miracolo economico e del più grande sviluppo produttivo del secondo dopoguerra, il cui successo, secondo molti studiosi, fu garantito da una generazione di lavoratori e quadri intermedi forniti di un’alta qualificazione (periti, geometri, ragionieri) assicurata proprio dagli istituti tecnici? E ancora: c’è un nesso tra l’attuale difficile congiuntura economica e le scelte delle famiglie? Gli esperti che studiano i flussi scolastici invitano alla prudenza. Come una rondine non fa primavera, così i dati statistici relativi a un solo anno non sono sufficienti a indicare una inversione di tendenza. Bisognerà tenere d’occhio il fenomeno per qualche anno per stabilire se l’aumento delle iscrizioni all’istruzione tecnica proseguirà prima di trarre qualche valutazione d’insieme. Secondariamente occorrerà analizzare i dati per capire in quali aree del Paese si è verificata con maggiore incidenza l’inversione di tendenza rispetto al recente passato e infine, questione tutt’altro che secondaria, sarà necessario appurare a quali strati sociali appartengono gli iscritti ai tecnici e ai professionali e qual è la quota di alunni originariamente di famiglia straniera. Soltanto dopo queste rigorose analisi si potrà stabilire se la rivincita è duratura e significativa oppure se si tratta di un fenomeno passeggero. In ogni caso, per quanto limitato e non ancora stabilizzato, il sorpasso degli istituti tecnici sui licei merita qualche riflessione. La licealizzazione che si è verificata negli ultimi quindici anni ha privilegiato il modello di una scuola lontana dal mondo del lavoro e proiettata verso l’Università, in linea con un’antica tradizione tutta italiana secondo cui la cultura vera (quella con la C maiuscola) è assicurata dalla discipline umanistiche e dalle caratteristiche accademiche. L’impianto del liceo classico resta nell’immaginario collettivo il modello di scuola superiore per eccellenza, anche se proprio il liceo classico è sempre meno scelto e oggi appare ormai una scuola minoritaria (meno del 7 per cento degli iscritti). Il titolo di studio della laurea, a sua volta, appare (appariva) una garanzia per trovare un buon impiego. Al momento di orientare i ragazzi di terza media agli studi successivi in molte scuole i docenti ragionano più o meno così: agli allievi più bravi si consiglia l’iscrizione a un liceo, a quelli così così (ma comunque più che sufficienti) si prospetta la prosecuzione degli studi negli istituti tecnici e infine i ragazzi mediocri sono orientati all’istruzione professionale. Si spiega così la “strage degli innocenti” che ogni anno si registra al termine del primo anno negli istituti professionali. Al miglioramento delle condizioni di vita delle famiglie italiane è corrisposto il fenomeno della licealizzazione diffusa con la contestuale parziale diserzione delle scuole finalizzate al lavoro. I genitori faticano ad accettare (e spesso i docenti a loro volta sono vittima di questo equivoco) che un figlio non possa andare al liceo e debba accontentarsi e ripiegare, diciamo così, su un istituto tecnico o professionale. Sfuggono a molte famiglie il valore non solo economico, ma anche intrinseco del lavoro nonché le possibilità occupazionali (oggi certamente con maggior fatica di qualche anno fa) che si possono aprire se si possiedono buone disposizioni all’esercizio professionale. Si è insomma creato un certo distacco e un forte indebolimento del contenuto educativo del lavoro e dell’etica stessa del lavoro. Siamo lontani dal protagonista del romanzo di Primo Levi «La chiave a stella», che si realizza come uomo girando il mondo fornito della sola capacità di montare i grandi ponteggi. La conseguenza non è difficile da individuare: il graduale disancoramento dal contesto sociale ed economico, come se i ragazzi potessero sostanzialmente vivere sempre alle spalle delle famiglie. In questa prospettiva non sembra esagerata la critica del ministro Elsa Fornero ai giovani, a suo giudizio troppo choosy, e cioè esigenti nell’accettazione di un posto di lavoro. Puntare sui licei e sulla università per assicurare ai figli un lavoro più qualificato è più che apprezzabile, ma non è sempre detto che questa strategia funzioni. Specie nei momenti particolarmente complicati come quello che stiamo vivendo (e che presumibilmente durerà a lungo) bisognerebbe uscire dagli schemi comuni e aiutare i nostri giovani a costruirsi un’esperienza di vita, anzitutto. Ci sono tante palestre nelle quali allenarsi, non solo quella con l’etichetta “liceo” o “università”. Ci sono anche i mondi del lavoro, dall’apprendistato alle scuole professionali, sapendo che non sono i pezzi di carta, laurea o diploma, che alla fin fine contano, anche se conservano un certo peso almeno fino a quando non sarà liquidato il valore legale dei titoli di studio. I pezzi di carta certificano alcuni standard di partenza, ma questi non bastano più, come si riteneva fino a poco fa. Molti miei studenti mi confessano di non dichiarare nei curricoli predisposti per trovare lavoro il possesso della laurea specialistica perché controproducente. Contano le competenze spendibili, conta la passione, conta l’originalità del proprio apporto all’interno di un team, conta dimostrare di essere “svegli” ed aperti alle sempre nuove complessità. In questa prospettiva si aprono grandi interrogativi. Le giovani generazioni saranno prevedibilmente chiamate a sperimentare per un periodo non breve condizioni di vita e a godere di beni inferiori o comunque non superiori a quelli di cui hanno fin qui fruito. Ma soprattutto saranno tenute a ripensare il senso dell’impegno personale e della convivenza associata alla luce di nuovi contesti di vita. Di conseguenza c’è da chiedersi se gli scenari educativi sono in grado di orientare e sostenere i giovani a reagire in modo adeguato e congruente: sapranno risalire la china rimboccandosi le maniche, studiando e lavorando di più, sapranno accettare la realtà e affrontarla a viso aperto, sapranno misurarsi, prima ancora che con la concorrenza globalizzata, con se stessi, con il loro desiderio di futuro, con una speranza credibile? Sapranno vincere la retorica del declino vissuto come un evento ineluttabile e l’ossessivo primato assegnato all’assolutezza del presente e al valore singolare dell’individuo e sapranno riallacciare relazioni virtuose e stringersi in una rinnovata solidarietà? Giorgio Chiosso
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