![]() Accesso utente |
Ora la nuova America
Four more years. Ancora quattro anni. Lo slogan per la rielezione di Barack Obama è diventato realtà, dopo una campagna elettorale tesissima e combattuta, che fino a poche ore prima dello spoglio definitivo delle schede non lasciava assolutamente presagire l’ampio margine col quale alla fine il presidente uscente si è riconfermato alla Casa Bianca. Ancora alle quattro del mattino ora italiana, le dieci di sera sulla East Coast, la prima a chiudere i seggi, il continuo accavallarsi di exit poll e proiezioni non riusciva a fornire certezze, anche se iniziava a delinearsi il mancato sfondamento di Mitt Romney negli Stati-chiave indispensabili per arrivare ai fatidici 270 “grandi elettori” necessari per accedere alla Casa Bianca. Tuttavia, complice l’afflusso di dati scandito dai vari fusi orari, che faceva pervenire prima i risultati degli Stati centrali, si creava l’illusione ottica del momentaneo vantaggio del candidato repubblicano, prima che la valanga di voti della costa Ovest, tradizionale feudo democratico, ridisegnasse gli equilibri. E alla fine anche gran parte degli swing states, gli stati “ballerini” che, con i loro cambi di orientamento, in definitiva sono quelli che determinano il risultato della partita, hanno optato per la riconferma del presidente uscente. Caso paradigmatico l’Ohio, a lungo indicato come il vero ago della bilancia, che alla prima proiezione dava un risultato quasi surreale, con Obama in vantaggio di circa trenta punti: merito del grande lavoro effettuato dal team elettorale dei Dems, con migliaia di preferenze incamerate in anticipo grazie al meccanismo dell’early voting, che consente di raccogliere il voto degli elettori già nelle settimane precedenti all’election day ufficiale. Un vantaggio risultato incolmabile dagli esiti delle urne, che ha consegnato a Obama questo Stato strategico dandogli la garanzia della vittoria anche a prescindere dai risultati della Florida, altro collegio in genere determinante, e che ha dimostrato due cose: l’importanza ormai assunta dal meccanismo del voto anticipato e la straordinaria potenza, capillarità e organizzazione della macchina elettorale democratica, «la migliore di sempre», come l’ha definita lo stesso Obama. Non a caso, durante il primo discorso ufficiale dopo la riconferma, egli ha avuto parole di grande elogio per gli attivisti e gli esperti che hanno condotto la sua campagna, insieme ai ringraziamenti di rito per il vice Joe Biden e, soprattutto, per la moglie Michelle. Ma prima dei ringraziamenti, immediata, l’apertura agli avversari sconfitti, in nome dell’amore per la Nazione: perché Obama sa di avere alle spalle un’America divisa e di fronte sfide enormi, da affrontare con una maggioranza risicata al Senato e col Congresso controllato dai repubblicani. Per questo presenta subito la mano tesa, a significare la voglia di collaborare per il bene del Paese, ma anche per mostrare risolutezza e far capire subito all’opinione pubblica a chi saranno da imputare eventuali disaccordi. Immediato, non a caso, il richiamo «stanotte avete votato per agire, non per la politica come è di solito. Ci avete eletto per concentrarci sul vostro lavoro, non sul nostro», che indica una volontà di partire subito col piede a tavoletta, libero dall’obbligo di costruire il consenso per la rielezione, di dosare pesi e misure, di non inimicarsi troppo certe lobby. Ansioso invece di ricostruire la grandezza degli Stati Uniti secondo la sua visione, cercando un posto nella Storia del suo Paese e, conseguentemente, in quella del mondo. Conscio anche delle sfide e degli ostacoli, enormi e immediati, che costellano i tentativi di ripresa di una nazione indebolita dalla crisi, ferita dalla furia di Sandy, il potente ciclone che ha devastato la costa atlantica come mai prima, insidiata nella leadership mondiale dal gigante Cina. La prima trappola è il temuto fiscal cliff, che il 31 dicembre vedrà la scadenza di sgravi fiscali risalenti all’era Bush jr: il conseguente aumento della pressione fiscale preoccupa in particolare il settore finanziario, come ha mostrato la reazione al ribasso di Wall Street, peraltro delusa anche dall’esito delle elezioni, dove aveva apertamente parteggiato per il businnessman Romney. Il timore è quello dell’innesco di una spirale recessiva, ma d’altra parte l’aumento delle entrate sarà probabilmente inevitabile per invertire la crescita tendenziale del debito pubblico, che rischia di andare fuori controllo e non può essere calmierato solo con i tagli. È qui che si consumerà il primo scontro coi repubblicani, a causa delle differenti ricette da adottare per garantire i saldi. Ed è forse qui che la middle class inizierà a capire quale pericolo ha scampato evitandosi Romney e il suo partito, arroccati nella difesa di ideologie liberiste e privilegi economici ormai insostenibili, gli stessi che hanno provocato l’attuale crisi. Ma non è solo il fronte economico, con la ripresa stentata e la disoccupazione record, a preoccupare: anche sulla politica estera si addensano nubi minacciose. Ancora lenta e incerta la exit strategy dall’infido pantano dell’Afghanistan, dove le truppe Usa e alleate, tra cui i nostri militari, continuano a pagare uno stillicidio di sangue; non molto lucida e lungimirante la lettura del fenomeno delle “primavere arabe”; snervante la prova di forza con Russia (e Cina) sulla Siria, dove continua la tragica mattanza di civili inermi schiacciati fra interessi e fazioni contrapposte. Ma soprattutto, la lenta ma continua progressione dell’Iran verso l’arma atomica, che Israele minaccia di voler stroncare con improvvidi bombardamenti che finirebbero per rompere gli equilibri in modo imprevedibile, potenzialmente catastrofico. Tenere a bada l’esercito di Sion non sarà facile, mentre per contro Tel Aviv avrebbe senz’altro preferito l’appoggio incondizionato garantito da Romney. Non a caso, gli ebrei americani hanno votato per il candidato repubblicano, unica minoranza a privilegiare lo sfidante. Perché il Gop (Grand old party, il nomignolo dei repubblicani) ormai fonda il proprio declinante consenso sull’etnia bianca, da quella dell’elite Wasp a quella dell’America profonda, ancora legata all’immaginario dell’epopea della conquista del West, destinata a diventare minoritaria. Mentre per Obama ha preso posizione un’altra America, meticcia e proiettata verso il futuro, quella degli afro-americani, degli asiatici e soprattutto dei latinos, la comunità sudamericana in vertiginosa crescita demografica e sociale. È proprio il voto di queste “minoranze” che, saldandosi con quello “industriale” degli operai salvati dai massicci interventi statali volti a evitare la chiusura delle grandi fabbriche, con quello “post-industriale” dei giovani della generazione di internet e con quello delle donne, oggettivamente penalizzate dalle visioni maschiliste e integraliste dei repubblicani, che ha determinato la vittoria di Obama. Il quale, peraltro, è stato rimproverato apertamente dai vescovi americani in merito alle possibili aperture su aborto e matrimoni omosessuali. In ogni caso, il presidente in carica, un afro-americano figlio di madre single, che ha vissuto in prima persona l’American dream fino al piano più alto, è il più autentico interprete e garante della nuova America, quella che dovrà archiviare nella soffitta della Storia il suo passato di cow-boy e pistoleri per presentarsi rinnovata e vincente alla sfida della globalizzazione, pur senza dimenticare le proprie radici. Già anni fa, molti analisti prevedevano il sorpasso della Cina nella leadership mondiale intorno al 2014: ora che la data si avvicina, la tendenza in atto sembrerebbe confermarlo, con Pechino che estende la sua influenza politica ben al di fuori dei confini asiatici, radicandosi anche in Africa e puntando all’America Latina, mentre la sua influenza commerciale domina ormai il mondo intero. Gli Stati Uniti non possono sperare di vincere il confronto con questo colosso sotto il profilo produttivo: non si può competere con un miliardo di “formiche” che in regime di semi-schiavitù producono giorno e notte ogni sorta di merce. La sfida va giocata sull’innovazione tecnologica, sull’indipendenza energetica, su una visione di futuro inclusiva ed equalitaria, sullo sviluppo sostenibile e sul mantenimento di un’egemonia culturale basata sui valori e sugli ideali di sempre. Obama lo sa, per questo punta su una scuola di qualità, sulla ricerca, sulle energie rinnovabili, sull’integrazione degli immigrati, sulla lotta ai cambiamenti climatici, in una parola, sul futuro. Se saprà mantenere promesse e impegni, terrà fede alla sua esclamazione: «Il meglio per gli Stati Uniti deve ancora venire». L’America lo aspetta. Riccardo Graziano
|