Tra Fiat e Fiom conflitto dannoso

 Nello stabilimento Fiat di Pomigliano si sta aprendo un conflitto di cui, in questi frangenti di crisi generalizzata, si sarebbe davvero fatto a meno. Risulta peraltro poco comprensibile la reazione dell'azienda, che a Pomigliano ha scelto di mettere in mobilità 19 operai per fare spazio, come stabilito dall'ordinanza della Corte d'appello di Roma, alle riassunzioni di altrettanti lavoratori iscritti alla Fiom, che avevano presentato ricorso per presunta discriminazione.

Una decisione che rischia di mettere i lavoratori gli uni contro gli altri, che sembra corrispondere ad una logica non consona ad una multinazionale impegnata a competere sul mercato dell'auto e, conseguentemente, interessata a ricercare la massima unità di intenti con il mondo del lavoro nel suo complesso.

Per meglio comprendere l'accaduto, provando poi ad ampliare il discorso sulle strategie produttive della Fiat, abbiamo voluto sentire Giuseppe Berta, esperto di storia dell'industria e docente all'Università Bocconi di Milano.

Professore, che idea si è fatto della vicenda?

Lo stabilimento di Pomigliano d’Arco è all’origine della crisi delle relazioni industriali alla Fiat. Per capirne la storia conviene fare un passo indietro. Quella fabbrica ha una storia sfortunata alle spalle: è entrata in funzione come stabilimento dell’Alfa Romeo verso la fine degli anni Sessanta. Le assunzioni vennero fatte in modo clientelare e il malaffare si fece schermo della conflittualità sindacale. La vita produttiva di Pomigliano ha avuto un mutamento quando la Fiat decise di riorganizzarla completamente nel 2009. In seguito, nel 2010, Marchionne ha destinato lo stabilimento alla fabbricazione della nuova Panda. Per far questo ha chiesto un nuovo contratto di lavoro approvato con un referendum, che ha visto circa il 64 per cento dei voti a favore e l’opposizione frontale della Fiom. La nuova fabbrica è stata inaugurata meno di un anno fa, nel dicembre 2011, e ha iniziato, come previsto, a produrre le Panda nuova serie.

La vecchia Pomigliano aveva circa 4.500 dipendenti, il nuovo stabilimento, con il nuovo assetto contrattuale, circa 2 mila…

Molti lavoratori sono ancora in cassa integrazione e tra questi vi sono gli iscritti della Fiom-Cgil, che in genere non sono stati riassunti nel nuovo stabilimento (ne fanno parte solo alcuni che non hanno rinnovato l’iscrizione a quel sindacato). Di qui l’azione giudiziaria intrapresa dalla Fiom per discriminazione. Questa tormentata vicenda sindacale, tuttavia, non riassume la storia della nuova fabbrica che, quando ho avuto l’occasione di visitarla nell’aprile di quest’anno, mi ha colpito per la sua modernità organizzativa, tant’è che è stata considerata l’impianto più avanzato in funzione presso Fiat-Chrysler. Va però aggiunto che la cassa integrazione, che ha interessato anche Pomigliano, e i contrasti sui temi sindacali possono compromettere proprio quel clima sociale e produttivo che avevo percepito nel corso della mia visita.

Come se ne esce?

Certo non si risolvono le cose con una sentenza di tribunale, in un senso o in un altro. Dalla crisi sindacale Fiat, secondo me, si esce soltanto rompendo il clima da braccio di ferro tra l’impresa e la Fiom che è in atto da due anni e mezzo a questa parte. Occorre la volontà delle parti di mettere fine a un conflitto anomalo, che si svolge nelle aule giudiziarie invece che in fabbrica.

Nelle relazioni industriali, troppo spesso vediamo intervenire i giudici. Forse le parti sociali non riescono più a svolgere bene i propri compiti?

Ripeto, a mio avviso i tribunali non possono risolvere una vicenda così complicata. Bisogna tornare sul terreno negoziale, con le parti che si riprendono per intero la responsabilità che compete loro.

La Fiom, uno dei sindacati con più iscritti, è esclusa dalle rappresentanze aziendali perchè non ha firmato il contratto. Non è una situazione anomala che crea comunque problemi?

A me sembra che la Fiat abbia voluto, per così dire, riformare le relazioni industriali dall’alto, introducendo in Italia il modello sindacale anglosassone, in cui il sindacato porta la piena responsabilità legale dei contratti che firma. Ne consegue che la rappresentanza sindacale è strettamente connessa al ruolo negoziale. Ciò ha portato all’esclusione della Fiom dalla scena sindacale Fiat. Dubito che alla lunga ciò si riveli un vantaggio per l’azienda: la conseguenza è infatti di trovarsi impelagata in una interminabile vertenza giudiziaria, che non arriva mai a conclusione.

Si poteva agire diversamente?

Secondo me, sì. Gli altri sindacati avevano sottoscritto l’accordo ricusato invece dalla Fiom e poi convalidato (sebbene di stretta misura, ma capita così anche in America…) da un referendum tra i lavoratori. Perché non prevedere, in questo caso, una rappresentanza maggioritaria per i sindacati che hanno strappato il consenso referendario, riconoscendo a chi non ha firmato, ma mantiene iscritti e rappresentatività fra i lavoratori, una rappresentanza di minoranza? La Fiat sembra ritenere che ciò non garantirebbe la cosiddetta “esigibilità” dei contratti. Ma si può chiedere alla Fiom di rispettare gli accordi che essa non ha firmato, a condizione di essere riammessa in azienda.

La Fiat nei giorni scorsi ha reso noto il suo nuovo piano industriale. Quale è la sua valutazione?

Le considerazioni che ho appena svolto acquistano ancor più valore nel contesto di “riposizionamento” della propria produzione che la Fiat ha annunciato nei giorni scorsi. In sostanza, si tratterebbe di sviluppare le auto di gamma più alta, valorizzando il polo Alfa Romeo-Maserati, facendo concorrenza ai grandi produttori tedeschi. Si tratta di un compito estremamente impegnativo e difficile, da ogni punto di vista. Una simile trasformazione non può essere affrontata senza il coinvolgimento e la partecipazione dei lavoratori: di qui la necessità di un clima sindacale più sereno, non travagliato come l’attuale.

Siamo ad una svolta per la nostra automobile?

Se si verificasse quanto ipotizzato da Marchionne, certamente il sistema dell’auto di Torino vivrebbe una svolta profonda. Si tratterebbe nientemeno che dell’uscita dalla produzione di vetture dei segmenti economici per aggredire le fasce più alte del mercato. Un impegno molto arduo, su cui al momento non si possono fare pronostici. Oggi il marchio Alfa Romeo realizza due soli modelli (Mito e Giulietta), con una produzione che l’anno scorso è stata di circa 130 mila vetture. Diverso il discorso per Maserati: in questo caso si tratta di auto di lusso, attualmente costruite in poco più di 6 mila esemplari. Prendendo dunque per buono lo scenario di Marchionne, che non è un vero piano industriale, perché ancora non indica risorse, passaggi e tempistiche di attuazione del nuovo schema, si dovrebbero moltiplicare questi volumi almeno per dieci volte. Un progetto di enorme ambizione.

Ritiene che il governo, come fanno più o meno tutti i suoi omologhi europei (e persino quello americano) dovrebbe intervenire in qualche modo nel comparto dell'auto?

Il nostro governo non dispone delle risorse per intervenire in aiuto del progetto Fiat, anche se lo volesse. E poi, una cosa simile non è nelle corde di un esecutivo tecnico, chiamato in servizio per tamponare l’emergenza finanziaria.

Quali potrebbero essere gli ingredienti di una vera politica industriale, di cui tutti lamentano l'assenza?

La politica industriale dovrebbe in primo luogo fondarsi su un ampio sostegno alla ricerca scientifica e tecnologica. Ma, come ho detto, siamo lontani da questa prospettiva.

Aldo Novellini



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