L'esilio calabrese di Morselli

Fu lieta sorpresa quando lessi vent’anni fa il «Diario» di Guido Morselli, trovandovi da subito un’ideale corrispondenza con «Il mestiere di vivere» di Cesare Pavese, che fu confinato a Brancaleone dall’agosto 1935 al marzo 1936. Molte delle pagine diaristiche, e non solo, di Morselli, sono scritte in Calabria e coprono il periodo del suo soggiorno in qualità di ufficiale sulle alture di Timpone Mannella prima e Catanzaro poi.

Il soggiorno nei Mari del Sud, apparentemente tedioso e monotono, favorisce in entrambi il dispiegarsi delle note di quel “diario” che costituirà non solo il giornale dell’anima, ma anche e soprattutto il giornale dell’opera in fieri, divenendo di fatto paradigma di riferimento per ogni approccio di un’oggettiva interpretazione delle loro pagine. Un “deposito” calabrese che si lasciava amorevolmente saccheggiare dando spunto in Morselli a molti dei motivi dominanti i romanzi, tracciando una sorta di unità di ispirazione. Ripetuti flash-back memoriali calabresi che altro non sono che sedimentazioni stratificate di esperienze, di emozioni, di idee annotate nel terribile esilio del Sud.

Rileggere Morselli, nel centenario della sua nascita, con una lente calabrese aiuta forse a meglio capire i germi innovatori che la sua scrittura controcorrente e fantasiosa riuscì ad esprimere, facendo di lui uno scrittore certamente irriverente, talora irritante, irregolare e trasgressivo in alcuni passaggi. Il suo narrare scavava nei risvolti più segreti e nascosti dell’uomo, sfoderando una eccezionale potenza inventiva e creatrice, mettendo in luce vizi e deformazioni della vita sociale, manipolando il gioco della storia, rovesciando gli schemi tradizionali, inventando un diverso gioco delle possibilità.

Lo scrittore arriva in Calabria ad inizio aprile 1943, in forza come ufficiale al 114° reggimento di fanteria di Catanzaro. Scrive al padre in una lettera del 7 aprile 1943: «Caro Papà, quello che ti ho segnato è il mio indirizzo militare. Potete usarlo per l’invio della corrispondenza mentre per pacchi e pacchetti eventuali credo più opportuno che indirizziate presso il farmacista Giampà. Mi dispiace di avervi disturbati con i miei appelli per le sigarette.(…) Io sono ancora a Catanzaro, all’Albergo Moderno, e ci resterò sino a quando il comando del reggimento si trasferirà.(…) La mensa è qui in albergo, ed è discreta. Il mio appetito è molto buono e per adesso lievemente sproporzionato alle… disponibilità. Mi aggiusto alla meglio, con quel che ho portato da casa. La città è come può essere. Clima fresco, non meno che a Varese e forse più: per adesso. Oggi e ieri è piovuto, con mia grande consolazione. Vi ho dato mie notizie per esteso. A voi, ora. Ti saluto, caro papà, con il più devoto e riconoscente affetto. Tuo Guido».

In un’altra lettera al padre, datata 12 aprile 1943, scrive: «Caro papà, qui nessuna novità. Continuo la solita vita. Ti scrivo (sono le 14) dalla mia camera, di cui sono molto soddisfatto. I luoghi sono veramente belli: e ciò è per me un dato di fondamentale importanza.(…) E’ un paese, questo, ventosissimo. Al paragone, le bufere varesine ben note sono un’inezia. Tira vento in permanenza: dacchè son qui (va per i dieci giorni) non ha ancora smesso. Affettuosissimi pensieri a tutti voi, dall’affezionatissimo Guido».

Molto intenso il ricordo della madre, Maria Bruna Bassi, che traggo dalla biografia per immagini curata per Rizzoli da Valentina Fortichiari, massima esperta dell’opera dello scrittore e attuale addetta stampa della Longanesi: «Nel ’43, durante il servizio militare, è inviato in Calabria e vi rimane per quasi tre anni, diviso dalla famiglia, senza poter dare, né ricevere notizie. Dopo lungo peregrinare coi suoi soldati, nell’inferno di quei drammatici momenti, lasciò l’esercito e trovò alloggio a Catanzaro presso un’amabile vecchietta, la signora Gigetta, che divideva con lui i miseri pasti. Cercò di dare lezioni d’inglese e trovò qualche anima pia disposta a prenderle, ma era la miseria. Non aveva abiti civili; un giorno, sprofondando di vergogna, riuscì a vendere la spazzola per i panni: non aveva altro, solo i suoi libri aveva conservato. Infatti trovava modo di studiare e di scrivere. Lì incominciò Realismo e fantasia. Era legato alla sua ospite da grande affetto, si scriveranno fino alla morte di lei; anch’io serbo molte sue lettere commoventi.( …) Tornò a casa nel giugno del ’45 attraversando l’Italia sconvolta, sul tetto di un camion carico di “cocci”».

Durante l’esilio calabrese Morselli scrive molto. Il «Diario» contiene larghi stralci del romanzo «Uomini e amori», sua prima prova letteraria importante, in parte autobiografica, pubblicato postumo, come quasi tutta la sua opera, dalla casa editrice Adelphi. Sul diario annota pure espressioni dialettali che ritorneranno più volte nel romanzo, le cui ultime cento pagine sono interamente ambientate in terra calabrese.

Il vivere nella città di Catanzaro gli dà la possibilità di ammirare la bellezza delle sue donne. Annota sul «Diario» in data 28 maggio 1945: «Stamane abbiamo parlato per più di un’ora, seduti a fianco a fianco. E’ certo tra le più belle di C. Non ho mai osservato in un’altra uno sguardo più luminoso, più fondo , più carezzevole». Il richiamo dei venditori di more per le vie di Catanzaro: «Mura, mora! Megghiu fara l’amure e nun morire !». Ma non mancano le note ironiche di chi è osservatore attento di usi e costumi: «Alla morte dei due mariti in casa V. si precipitarono gli amici e i parenti alla caccia dei vestiti (“costumi“), scarpe, vasellame e di ogni altra cosa che si potesse arraffare, spartire, portare via senza indugio: “Per la buon’anima di Don Ciccio!”, “per la pace di Don Totò”. A distanza di due anni l’amara consolazione delle due vedove, pentite troppo tardi di quella loro beneficienza troppo generosa, era di mettersi al balcone le giornate di festa e vedere sfilare il vicinato, una metà del quale era vestito e calzato con la roba uscita dai loro cassoni e armadi».

Accennavo all’inizio di assonanze tra Pavese e Morselli. Nel romanzo «Uomini e amori» entra in scena Marirò, trent’anni, dall’aspetto ferino come la Concia del carcere di Cesare Pavese. La donna ha quattro figli e un marito d’origine albanese, scappato in America per sfuggire al richiamo sotto le armi. Si concede al protagonista del romanzo e continua a fissarlo «con uno sguardo in cui non v’era nulla d’inverecondo, ma un’esaltazione carezzevole e ansiosa. Cambria, seduto sulla soglia, beveva dalla ciotola il latte e addentava la castagnizza che la donna gli aveva offerto osservando l’origano che fioriva in due grate ai lati della porta e che le altre volte non aveva veduto. Ritornò quasi ogni giorno. Se lui la chiamava dentro la casa (un sedile di pietra, quattro sassi squadrati per focolare e la terra per impiantito), Marirò gli diceva: «Lego la capra», oppure: «Vado a prendere l’acqua da farti bere, e vengo».

Morselli-Cambria decise di farle un ritratto, nel contesto selvaggio delle alte felci e dei castagni, intitolato «Malinconia di Calabria». Ottenne che lei, vincendo la vergogna, «si tenesse dischiuso il corpetto e con la mano porgesse la mammella, turgida di latte, perché al vacca rizzo ella aveva altri tre figlioli, l’ultimo dei quali spoppato di fresco. Marirò aveva avuto il potere di rimettergli in mente il lavoro, dopo mesi di oblio. Da quel giorno, ogni pomeriggio, arrivato lassù Cambria collocava il suo cavalletto e Marirò si disponeva docile in posa: felice se lui, interrompendosi per riposare, le si avvicinava e le carezzava i capelli dalla tinta opaca, lanosi, o la mammella che lei reggeva intenta, e che dalla mano le traboccava».

Una maternità amorosa e dolente, simile alle tante donne incontrate e che fa scrivere a Morselli: «Nei tratti di Marirò tu hai espresso la malinconia di questo paese, che la violenza del sole non riesce a diminuire. Queste genti mediterranee, immensamente diverse da noi, a dispetto delle convenzioni amministrative, sono una razza segregata, decaduta, mortificata. Questi pescatori, questi montanari, sulle rive del loro mare illustre, sono i custodi di un mondo di memorie. Le loro città non sono le sporche cittaduzze che tu e io conosciamo: sono quelle che la malaria aveva spopolato già venti secoli fa e che la sabbia e le onde hanno inghiottito, ma delle quali rimane qualche frontone, qualche colonna lungo le spiagge, come le invasioni barbariche e le incursioni barbaresche non hanno cancellato del tutto, dai volti e dalla parlata, i segni della nobiltà originaria».

Lo scrittore si tolse la vita nell’agosto del 1973. In una pagina del diario calabrese scrisse in data 18 gennaio 1945: «Suicida per amore della vita». Un pensiero che lo tormenterà a lungo al punto da scrivere, sempre nel «Diario»: «Meglio la morte che una vita amara, e il riposo eterno che un continuo dolore». Gianni Carteri

 



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