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"Decrescita felice" o vero sviluppo?Il 12 ottobre, a Torino, la Piccola Casa della Divina Provvidenza (Cottolengo) ha ospitato un interessante convegno (del quale è già stata data un’ampia sintesi nel numero scorso de «il nostro tempo») dal titolo: «L’avere e l’essere per un’economia al servizio della vita», articolato sui quattro pilastri di un’«economia buona»: «Un’economia non solo finalizzata al profitto»; «il denaro come mezzo e non come fine»; «la sobrietà come motore economico»; «una nuova etica del lavoro». Ognuno di questi pilastri è in grado di giustificare da solo un convegno anche per più giorni e più articoli di giornali; tutti e quattro sono comunque collegati da un filo rosso che li riconduce a un’unità: il fine dell’attività economica. A tale proposito, è bene ricordare che l’attività economica nasce per soddisfare i bisogni dell’uomo: la produzione non può essere fine a se stessa; eppure oggi si valuta il benessere di un Paese in termini di Pil pro capite, mentre il benessere non può derivare che da un adeguato livello di consumi pro capite. Naturalmente la produzione è premessa dei consumi: se non si hanno beni prodotti non si possono avere beni da consumare; ma se alla premessa non segue l’impiego dei beni per il soddisfacimento dei bisogni dell’uomo, si ha una premessa senza séguito. Ma è proprio ciò che si verifica adesso: che l’economia mondiale produca beni in grande quantità e che milioni di persone non abbiano di quell’indispensabile per sopravvivere; una premessa appunto senza la sua logica conseguenza. Si tratta ovviamente di una questione di distribuzione di ciò che si produce fra chi ha bisogno di consumare per sopravvivere, cioè tutti. S’impone quindi una nuova scelta culturale. Nell’Otto-Novecento è prevalsa la seguente cultura economica: la crescita della produttività porta a maggiore disponibilità di beni solamente a favore di chi ha concorso alla crescita della produttività stessa. Si è così formato il seguente bipolarismo: alta produttività, alti salari, alti consumi, da un lato; bassa produttività, bassi salari e bassi consumi, dall’altro lato (ma si è anche avuto, in certi Paesi, alta produttività e bassi salari e bassi consumi, in quanto l’alta produttività è stata assorbita da surplus esportati e goduti in altri Paesi). Avrebbe potuto, invece, essere altrimenti; potrebbe anche essere che gli incrementi di produttività oraria, che il progresso tecnico-economico sa creare, non vadano solo a beneficio di chi realizza questi guadagni di produttività (maggiore salario nell’arco della sua vita lavorativa), ma vadano distribuiti anche all’interno della collettività attraverso una riduzione delle ore di lavoro pro capite che permetta a più persone di lavorare (più occupati) e/o attraverso la destinazione della maggior quantità di beni, che gli incrementi di produttività permettono di realizzare, alle persone che non possono partecipare al godimento dei benefici avuti: i deboli dei Paesi in cui gli incrementi di produttività si stanno realizzando o i deboli del mondo, che vivono nelle zone in cui la produttività non sa crescere. Nel contingente, la cancellazione dei debiti accumulati dai Paesi sottosviluppati avrebbe appunto quest’ultimo significato. D’altra parte, il principio che non necessariamente i soli produttori diretti vengano a godere, essi soli, di quanto prodotto sta alla base dell’elemosina, ma anche dello Stato sociale e di tutti gli interventi volti alla redistribuzione dei redditi a favore dei meno fortunati e dei bisognosi. Siamo di fronte a una scelta culturale. Se condivisa, essa permetterebbe di affrontare con chiarezza e coerenza la questione degli interventi a favore dei paesi sottosviluppati per aiutarli a uscire dal circolo vizioso della povertà: basso prodotto pro capite, basso consumo pro capite, basso investimento pro capite (sia in termini di infrastrutture sia in termini di capitale impiegato direttamente nelle unità produttive), poiché tutto ciò che è prodotto va necessariamente in consumi, e non basta, conseguentemente poca o nulla crescita del prodotto pro capite e così via. Per uscire da questo circolo, occorre poter aumentare i consumi pro capite (non c’è possibilità di sviluppo per una popolazione che muoia di fame) e aumentare gli investimenti per intraprendere una via di sviluppo; il che non può essere fatto che attraverso un aumento delle importazioni senza pagarle, o senza pagarle subito, cioè senza aumentare contemporaneamente le esportazioni, che sono concorrenti dei consumi e degli investimenti interni. Questo per quanto riguarda i Paesi sottosviluppati o in via di sviluppo. Quanto a noi “sviluppati”, gli stessi beni di consumo, sopra richiamati quali beni finali, devono essere attentamente valutati alla luce della loro effettiva rilevanza per il benessere delle persone. Spesso infatti i nostri consumi sono determinati solo dalla pubblicità, dalla convinzione che, se non lo facessimo, diminuiremmo il nostro status o dall’abitudine che ci impedisce persino di immaginare la possibilità di rinunciarvi. Consumiamo beni che in realtà non contribuiscono alla qualità della nostra vita, ma anzi la appesantiscono inutilmente. Consumiamo senza pensare; senza considerare l’impatto sull’ambiente naturale dei nostri consumi; senza ricordare che ogni bene prodotto ha anche un “fardello ecologico” (il quantitativo delle risorse naturali distrutte per produrlo) spesse volte superiore alla sua stessa massa. L’enciclica di papa Benedetto XVI Caritas in Veritate richiama con forza la necessità di un profondo rinnovamento culturale che porti sempre a valutare i danni (alla natura e a noi stessi) che il consumismo e l’edonismo determinano e ci permetta di distinguere ciò che è veramente importante per il nostro benessere da ciò che invece è semplicemente superfluo o magari, talvolta, decisamente inutile e perfino dannoso. È un richiamo a quanto già il beato Giovanni Paolo II aveva evidenziato nella sua enciclica Centesimus Annus con la sottolineatura della “domanda di qualità” che promana nei diversi àmbiti, nei diversi comportamenti. Nel caso particolare dell’attività economica della produzione, ciò significa dire che la valutazione della produzione e della disponibilità dei beni non può essere ridotta a una mera misurazione delle quantità, bensì deve necessariamente coinvolgere la valutazione delle qualità dei beni alla luce di un condiviso contenuto di “bene comune”. Questa distinzione sarebbe superflua se i prezzi fossero buoni misuratori della qualità dei beni stessi, ma ciò sovente non è vero; quindi occorre introdurre una valutazione extracontabile della qualità dei beni; il che non è agevole e richiede la definizione di connotati qualitativi socialmente condivisi. Potrà quindi succedere che alcuni valori della produzione o di valori aggiunti (valore della produzione al netto dei consumi di beni intermedi) siano negativi poiché negative sono le utilità o le utilità aggiunte della produzione, con buona pace dei teorici della «decrescita felice», i quali sostengono che, per aumentare il benessere della comunità si dovrebbe ridurre la produzione. In effetti, l’eliminazione di uno o più addendi con valore negativo farebbe aumentare il valore della sommatoria delle utilità complessivamente generate dalla produzione. Se così è (ed effettivamente, così è), la questione della decrescita felice viene ad essere ridimensionata nel senso che la crescita misurata attraverso il Pil non è correttamente misurata; meglio, che il Pil, per il modo in cui è calcolato, non è un buon indicatore dello sviluppo economico, in quanto il Pil misura l’entità delle merci e dei servizi di nuova produzione venduti o destinati ad essere venduti (non considerando quindi la produzione che avviene in funzione domestica e quella svolta in modo volontaristico), senza alcuna distinzione fra ciò che crea benessere (utilità) e ciò che lo lascia immutato o lo riduce. Questo ci porta a sottolineare la differenza esistente fra «crescita» e «sviluppo». Il primo termine si riferisce a un aumento prolungato nel tempo della capacità di produrre quantità crescenti di beni in modo immutato, cioè senza significativi mutamenti nel tipo di prodotti, nella natura dei processi produttivi, nella struttura del sistema economico, nelle relazioni economiche, sociali, politiche e nella cultura della società. Il secondo termine indica, invece, il caso in cui la crescita quantitativa del sistema economico è accompagnata da sensibili mutamenti qualitativi; dal realizzarsi di tutti o di alcuni dei mutamenti sopra indicati. Lo sviluppo non vuol dire solo crescita della quantità di beni prodotti, anche se fra questi ci possono essere beni assai utili per migliorare le condizioni di salute, di abitazione, di vita dell’umanità in modo qualitativo assai rilevante. Lo sviluppo vuol dire anche altro e le encicliche pontificie, in specie a partire dalla Populorum Progressio di papa Paolo VI, hanno sempre chiaramente detto che lo sviluppo dev’essere inteso nel senso integrale della persona umana, nelle sue dimensioni materiali, culturali e trascendenti. L’antinomia qualità/quantità, or ora messa in evidenza, dev’essere tenuta in grande considerazione anche in altri contesti analitici; per esempio, con riferimento a un termine cui si fa spesso riferimento nei correnti dibattici politici, economici, etici: la sobrietà. Questa, invocata da molti quale rimedio qualificante nel corrente periodo di crisi, è presentata quale risposta virtuosa poiché, viene detto, nei periodi di crisi occorrerebbe rivedere gli stili di vita e di consumo, riducendo le spese superflue per concentrare la propria domanda sui beni essenziali. È questo corretto? Lo sarebbe se la situazione corrente fosse quella di un sistema economico in cui c’è eccesso di domanda aggregata rispetto al potenziale produttivo e nella quale occorresse ridurre i consumi per lasciare spazio agli investimenti, appunto per aumentare il potenziale produttivo del sistema. Non lo è se c’è invece un difetto di domanda che blocca la crescita economica. In questo secondo caso, la riduzione della domanda di consumo, implicita nel “comportamento sobrio”, sarebbe controproducente e dannoso, poiché farebbe abbassare il livello della produzione delle utilità personali e sociali create dai beni e delle possibilità di accedere a queste utilità da parte delle persone che prima concorrevano a produrli. Quest’incertezza sul ruolo positivo o negativo che, sulla crescita del reddito e dell’occupazione, può avere il comportamento sobrio riguarda la “sobrietà” intesa nella sua dimensione quantitativa. Nella sua dimensione qualitativa, la “sobrietà” ha invece sempre un significato positivo poiché significa “spendere bene”. Mentre lo “spendere poco” può essere positivo o negativo a seconda della situazione (di eccesso o di difetto) della domanda aggregata rispetto all’offerta aggregata, lo “spendere bene” (nel senso indicato poco sopra) è sempre cosa positiva. Daniele Ciravegna
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