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L'Italia salvata dalle famigliePer lo meno dagli anni Novanta del secolo scorso, l’Italia è assurta al ruolo di Paese superindebitato, per via di un elevato rapporto fra debito pubblico e Pil (allora inferiore, in Europa, solo a quello del Belgio; poi superiore anche a quest’ultimo, ma nel frattempo superato da quello della Grecia). Da questo fatto pare discendano tutti i mali della nostra economia: non c’è affermazione (seppur breve) riguardante l’attuale crisi economica che non tiri in ballo un riferimento all’attuale «insostenibile livello del nostro debito pubblico». Di fronte a questo dato, tutto passa in second’ordine, finanche il fatto che il debito pubblico italiano è stato superato nel 2011 dal livello del debito pubblico della Germania, il Paese per antonomasia del rigore della gestione della sua finanza pubblica. L’anno scorso, l’Eurostat ha costretto la Germania a inglobare nel dato sul suo debito pubblico anche le passività del veicolo statale (bad bank) utilizzato per salvare/nazionalizzare le perdite di vari istituti bancari privati disastrati. Sicché il debito pubblico della Germania ufficialmente salì a 2.079 miliardi di euro (83,2 per cento del suo Pil), con ciò scavalcando il livello in valore assoluto del debito pubblico italiano e diventando lui il terzo debito pubblico del mondo, dopo Stati Uniti e Giappone. Si potrebbe ovviamente dire che i valori assoluti hanno scarso significato; che occorre sempre fare confronti in termini di relativi; relativi rispetto al contesto in cui si realizzano. Per diverse grandezze la relativizzazione viene fatta per kmq. di superficie; per altre viene fatta pro capite; in campo economico sovente si ricorre al Pil. Nel caso del debito pubblico, non è però molto più valido dei kmq. o della popolazione ed è per di più concettualmente debole, perché confronta una grandezza stock (il debito) con una grandezza flusso (il Pil). Se si vuole fare non solamente un’operazione di relativizzazione, ma si vuole invece esprimere una misura di effettiva sostenibilità finanziaria, occorre confrontare le passività di un soggetto con le sue attività, altro stock al quale il soggetto in questione può far ricorso per far fronte alle richieste di rimborso del proprio debito. Ma quale debitore occorre prendere in considerazione per parlare di sostenibilità finanziaria di un Paese? Il passaggio dal debitore settore pubblico di un Paese al debitore Paese, quale operazione sinonimica è, in via di principio, scorretta e lo è tanto più per il nostro Paese che ha, al pari della Germania, un limitato debito privato (di famiglie e imprese) se rapportato ai livelli di Paesi come Stati Uniti, Regno Unito e Spagna. Infatti, la seconda riga della tabella pubblicata qui a fianco vede l’Italia su una posizione di debito totale sul Pil più bassa rispetto a tutti gli altri Paesi ivi inclusi, con l’eccezione della Germania; per cui l’“evidente” situazione di bancarotta incombente sulla nostra economia non è proprio così evidente. Tornando comunque al debito pubblico, un’espressione corretta dei suoi termini relativi è il suo rapporto con l’entità della ricchezza finanziaria netta delle famiglie nazionali, che rappresenta il cespite cui si potrebbe ricorrere per far fronte alle richieste di rimborso del debito pubblico (attraverso un’imposta appunto su detto cespite). Ora, con questo nuovo confronto, la dimensione relativa del debito pubblico dell’Italia si sgonfia (vedi quarta riga della tabella) su valori prossimi a quelli dell’intera area dell’euro; è superiore a quella di Regno Unito e Stati Uniti, ma prossima a quella di Francia e Germania; assai inferiore a quella di Spagna e Giappone. Se poi si considera il solo debito pubblico sottoscritto da stranieri (la vera misura del carico, anche in termini di peso che si va a caricare sulle generazioni future, che la nostra economia ha in termini netti, cioè ripulito della partita di giro costituita dai debiti/crediti che si compensano all’interno) e confrontiamo l’entità di questo con la ricchezza finanziaria delle famiglie (vedi sesta riga della tabella), la posizione relativa dell’Italia diventa migliore di quella degli altri Paesi dell’area dell’euro. Dunque, in Italia la ricchezza finanziaria delle famiglie controbilancia il debito pubblico verso l’estero meglio di quanto non succeda in Germania e Francia, che certamente non sono considerati “Paesi a rischio”. Considerando infine la posizione finanziaria netta sull’estero di tutti i soggetti nazionali rispetto alla ricchezza finanziaria netta delle famiglie nazionali (ultima riga della tabella), si ha che la situazione dell’Italia, seppur distante da quella di Giappone e Germania, che sono positive in conseguenza dei persistenti saldi positivi nella bilancia dei flussi non finanziari, è in linea con la media europea e di poco peggiore rispetto a Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Ma allora perché tutto il bailamme nei confronti dell’“Italia in bancarotta”? In parte per aver prestato l’attenzione a un indicatore non corretto (debito pubblico/Pil); in parte si è rimpolpato l’errore predetto con un altro indicatore di scarso rigore analitico, quanto a indicatore di stabilità finanziaria: lo spread fra i tassi d’interesse sui nuovi prestiti richiesti dallo Stato italiano e quelli sulle nuove emissioni di titoli pubblici della Germania, che peraltro nel 1995 era stato ben superiore ai livelli del secondo semestre dell’anno scorso senza che qualcuno fosse salito in cattedra per stracciarsi le vesti, finanche dichiarando che fosse a rischio il pagamento degli stipendi ai dipendenti pubblici. In gran parte, però, perché nei mercati finanziari, ampiamente non di concorrenza perfetta, per via delle forti asimmetrie informative presenti, talché in essi operano soggetti (le agenzie di rating) che vorrebbero e dovrebbero ridurre tali asimmetrie, è possibile far del terrorismo mediatico anche per fini non finanziari, ma politici di parte. In effetti il predetto bailamme ha contribuito non poco al cambiamento del governo del novembre 2011. Il governo è cambiato; lo spread è sceso di poco; scarse variazioni si sono avute in altre grandezze finanziarie macroeconomiche; eppure importanti lobby mondiali, che un anno fa soffiavano sul fuoco della nostra mancanza di serietà e affidabilità, ora definiscono il nostro Paese un esempio di serietà. Evidentemente perché la mancanza di serietà si riferiva a certe persone, non alla situazione finanziaria effettiva del Paese; in effetti, letta in modo stravolto per l’impiego di indicatori non seri. Daniele Ciravegna
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