La crisi è un terzo dopoguerra

 

In un contesto di dissesto economico generalizzato, a livello internazionale, nazionale, locale, con bilanci pubblici in rosso e disponibilità di spesa ridotte all'osso, è possibile garantire le terapie e le cure mediche essenziali ai cittadini?

Se è vero che in alcune Regioni la Sanità rappresenta circa l'80 per cento della spesa pubblica e la disponibilità economica si contrae sempre di più, è inevitabile domandarsi come sia ancora possibile «declinare la salute nel tempo della crisi». Questo il quesito su cui si è imperniato il convegno organizzato dal Centro cattolico di Bioetica dell'Arcidiocesi di Torino il 22 settembre scorso. Otto esperti, in altrettanti settori della sanità, delle scienze mediche ed economiche, si sono confrontati in un dibattito schietto e concreto, offrendo preziosi spunti di riflessione agli oltre trecento partecipanti, appartenenti alle principali professioni sanitarie.

«La crisi economica attuale», ha esordito Sergio Bortolani, preside della Facoltà di Economia a Torino, «ha avuto un detonatore in epoca recente, ma viene da lontano. Ed è un esempio macroscopico di ciò che comporta non usare l'etica come guida dell'azione umana in generale ed economica in particolare». La crisi del debito pubblico italiano, ha spiegato il preside, è frutto di decisioni prese negli ultimi 40 anni da governi di tutti i colori, con l'unico obiettivo di ottenere consenso sociale pro-tempore. «Sì è detto sì a tutto e a tutti: alle rivendicazioni salariali di ogni genere, ai sostegni alle imprese private, all'evasione fiscale generalizzata, alle pressioni di lobby e corporazioni... La ricerca indiscriminata di consenso sociale ha scaricato sulle generazioni successive l'inevitabile aggiustamento».

Le statistiche sul debito pubblico sono impietose: negli ultimi quattro decenni non c'è stato un solo anno in cui si sia ridotto, arrivando agli attuali 1.967 miliardi di euro. Anche nel 2012, nonostante l'austerity, il debito è aumentato. «La colpa», ha commentato Bortolani, «è principalmente della classe di governo: certi provvedimenti sono stati presi dai politici e, ancora oggi purtroppo, in diverse Regioni assistiamo a pessimi esempi di uso del denaro pubblico». Tuttavia queste gestioni "disinvolte" «sono anche frutto di una cultura che ciascuno di noi ha contribuito a creare: quella che ammira i "furbetti" anziché coloro che pagano le tasse».

A scoperchiare il vaso di Pandora è stata la crisi finanziaria dei cosiddetti mutui subprime, che tra il 2007 e il 2009 ha sconvolto gli Stati Uniti e, da lì, il resto del mondo. «Fin dal 2004 gli attori finanziari sapevano che il sistema sarebbe crollato, ma continuavano a concedere prestiti a persone insolventi», ha spiegato l'economista. «Abbiamo assistito a livelli di criminalità, tra gli operatori del settore, mai visti in precedenza e purtroppo ben pochi di quei delinquenti alla fine hanno pagato». I titoli "tossici" statunitensi furono acquistati in tutto il mondo, soprattutto dalle banche europee (poco da quelle italiane), così i governi, per contenere le ripercussioni sull'economia reale, hanno introdotto ammortizzatori sociali eccezionali, tra cui milioni di ore di cassa integrazione, con inevitabile aggravio del debito pubblico.

«Il colpo di grazia è giunto con il quasi fallimento di Grecia, Irlanda e Portogallo: a quel punto i mercati hanno aggredito Spagna e Italia, considerandole potenzialmente "morose". Poiché il 40 per cento del debito pubblico italiano è in mano alla speculazione finanziaria globale, abbiamo corso il serio rischio che gli investitori stranieri iniziassero a liberarsi dei nostri titoli di Stato, innescando un effetto domino che avrebbe portato al crash finale». Tutto ciò ha portato all'incremento forsennato dello spread, con ripercussioni sulla vita di ciascuno di noi. Tempo fa il governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha affermato che lo spread a livelli così elevati ha obbligato l'Italia a fare riforme che erano ferme da decenni. «Caduto il governo precedente, quello tecnico attuale ha introdotto provvedimenti radicali nell'ambito del lavoro, della spending review, delle pensioni e delle liberalizzazioni (seppure annacquate). Ma mancano ancora: corruzione, produttività, giustizia...».

Per il futuro, Bortolani ha alcune ragioni di pessimismo e altre di speranza. «Sono scettico, se penso che sono imminenti le elezioni politiche e l'attuale governo tecnico ha fatto solo metà del lavoro. Altrettanto angosciante è la consapevolezza che occorreranno almeno altri dieci anni di sacrifici per pensare di portare il debito pubblico a un livello accettabile (80-90 per cento del Pil). Terza considerazione, forse più disarmante, è constatare che la finanza globale non si è affatto ravveduta». Gli elementi di speranza sono «lo spirito di sacrificio, che abbiamo sempre tirato fuori nelle situazioni di maggiore criticità; la tenuta dell'export, indice della validità del sistema produttivo italiano; l'azione illuminata della Banca centrale europea, che considera l'euro un processo irreversibile e indica così il cammino da seguire per salvare l'intero sistema; il recupero "obbligato" di valori dimenticati come sobrietà, solidarietà e responsabilità. Se, grazie alla crisi, riuscissimo a mettere in atto il 10 per cento di quanto scritto nella Caritas in Veritate, approderemmo a un mondo diverso».

Il dato di fatto, ha concluso il preside, «è che siamo in un terzo dopoguerra: le macerie, che hanno lasciato dietro di sé 40 anni di debito pubblico incontrollato, sono pari a quelle della Seconda guerra mondiale; ma come ne siamo usciti allora, possiamo farcela anche adesso».

Lara Reale

 

 



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